Home Videogiochi Recensioni [Recensione] We Happy Few – C’è poco da stare allegri

[Recensione] We Happy Few – C’è poco da stare allegri

Quando un certo gioco riesce a lasciare un significativo impatto non solo nel mondo videoludico ma anche nella vita stessa di un videogiocatore, i suoi “successori spirituali” che si susseguono sono naturalmente materia di interesse. Prendiamo BioShock come esempio, il capolavoro di Ken Levine e Irrational Games dal quale è poi nato quell’altrettanto capolavoro chiamato Prey di Arkane Studios. Atmosfere similari, gameplay ispirato, sensazioni chiaramente evocative, un titolo che, da amante di BioShock, mi appassionò come pochi altri lo scorso anno.

Sulla stessa scia, ecco che nel 2016 iniziai a interessarmi con gran fervore ad un curioso indie di Compulsion Games, una piccola software house canadese che stava sviluppando l’accattivante We Happy Few, survival ambientato in una distopia degli anni ’60 e con tanti elementi evocativi dei giochi sopraccitati. Dopo anni di attesa e di (dubbiose) versioni early access, eccolo finalmente debuttare sulle nostre piattaforme, ma… Avete presente quando vi decidete a chiedere di uscire ad una ragazza che vi piace da molto, questa accetta e solamente dopo vi accorgete che non avete niente che vi aggrada di lei oltre all’aspetto? Ecco, ciò che è successo con We Happy Few è purtroppo molto simile a questo esempio.

Versione provata: PlayStation 4.

SIATE GIOIOSI

Al centro delle tre storie che andiamo a vivere all’interno del mondo di We Happy Few ci sono tre personaggi distinti, le cui vicende si intersecano però per svariati motivi che hanno tutti a che vedere con un fattore in particolare: la Gioia. Il primo a dare il via alle danze è Arthur Hastings, impiegato statale addetto al controllo degli articoli di giornale e alla loro eventuale censura, nel caso in cui quello che viene sopra riportato non sia conforme con le regole. Il mondo in cui vive Arthur è infatti molto particolare. Siamo in una società distopica dei fittizzi Anni ’60, dove la Seconda Guerra Mondiale non è andata come ricordavamo per questa cittadina britannica a Wellington Wells e dove soprattutto il governo controlla, istruisce e manipola tutti i suoi abitanti per mezzo della Gioia. Non fatevi ingannare dal nome: questo farmaco, assimilabile ad una droga per effetti e composizione, agisce sulla mente delle persone alterando la realtà, facendo apparire tutto più bello, colorato, quasi surreale. È proprio questo surrealismo che convincerà Arthur, prima integerrimo lavoratore, a interrompere la somministrazione di Gioia dopo aver ricordato un tramatico evento della sua infanzia e aver scoperto cosa sta succedendo al suo mondo.

Nonostante le apparenze, Wellington Wells è infatti un agglomerato di problemi, un gigantesco inganno messo in atto dai poteri forti per controllare ogni abitante, dove la discriminazione tra i ceti differenti, cioè tra coloro ai quali è concesso di ingerire Gioia e chi invece è stato esiliato, la fa da padrone. In quanto “musone”, una persona cioè che ha interrotto la somministrazione di Gioia e dunque è diventato un nemico del governo, Arthur si nasconde inizialmente a Barrow Holm, borgo di scapestrati privi del controllo mentale della droga ma nella totale povertà, dove vige semplicemente la legge del più forte. Il suo destino e il suo volere, quello di lasciare una volta per tutte l’inferno di Wellington Wells schiacciato da dubbi, preoccupazioni e una vita di menzogne, lo porteranno a tornare a solcare le strade della sua vecchia cittadina e ad immischiarsi in una faccenda ben più grande di lui, e a scoprire alcuni degli oscuri segreti legati ai misteri della distopica civiltà abbandonando la maschera, figurativamente e letteralmente, dietro la quale si nasconde ogni persona.

C’è passione nella storia di Arthur, così come in quelle degli altri due personaggi successivi che non aggiungono niente di più se non altre ore di gioco – per inciso, ho completato la storia di Arthur in 12 ore, ma lasciando ampio spazio alle quest secondarie e a problemi di varia natura – e qualche meccanica extra interessante. È da ammirare il riuscito tentativo di Compulsion Games di creare una storia godibile, con un certo pathos amplificato dalle atmosfere surreali e in certi casi palesemente impossibili del gioco, non priva di artifici fatti apposta per aumentare il tempo di gioco. Più di una volta capiterà di essere pronti, dopo mille peripezie, ad abbandonare un’area ma di dover fare i conti con un nuovo oggetto da trovare, un’uniforme da indossare o un lasciapassare da trovare. Fortunatamente, è proprio grazie a questo contorto quanto magnifico mondo messo in piedi dagli sviluppatori che troviamo la forza, anche quando il gioco sembra non voler proprio farci avanzare nella storia, di continuare la sessione e sperare di recuperare l’irrecuperabile, a patto di fare i conti con alcune componenti abbastanza fuori luogo o del tutto incongruenti, delle quali discuteremo tra poco.

NON È TUTTO GIOIA QUELLO CHE LUCCICA

Se siete arrivati fino a questo punto, sappiate che avete già assaporato buona parte degli aspetti positivi di We Happy Few. Certo, non si può dire di non essere rimasti soddisfatti anche dal gameplay e da come è stato strutturato il gioco, ma in questi casi emergono luci (poche) e ombre (molte).

We Happy Few è un survival che vuole lasciare una totale libertà d’azione al giocatore, che si sbizzarrisce nell’esplorazione della vasta mappa di gioco dove i paesi e i sobborghi sono generati proceduralmente (cosa che non costituisce la benché minima nota positiva, perché questo influisce solamente sulla posizione degli edifici). Questa impalcatura viene ereditata dalla sua fase di Accesso Anticipato, nella quale però la componente di sopravvivenza era notevolmente più accentuata. Per questa release, Compulsion ha adottato una via più accessibile per l’utenza, semplificando alcune meccaniche e ritrovandosi però tra le mani un prodotto che non è sempre coerente con sé stesso. Arthur, così come gli altri due protagonisti degli atti 2 e 3, devono sempre tenere sott’occhio parametri come il sonno, la fame, il rischio di essere sottoposti ad una overdose da Gioia, il sanguinamento e così via. Ma mentre alcune giustamente devono essere curate per non portare alla prematura morte, come il suddetto sanguinamento, altre sembrano più che altro fastidiosi status extra senza un reale impatto sul giocatore se non sulla sua efficacia in combattimento o sulla sua resistenza. Ne è un esempio la sete, che può non essere affatto placata per decine di giorni senza che succeda nulla ad Arthur, così come la fame.

Altre incongruenze si possono riscontrare anche nella struttura stessa della componente survival fatta di crafting e creazione di nuovi oggetti. Facciamo un passo indietro: come spiegato, il mondo di We Happy Few è governato da due macro-aree dettate dal ceto cittadino. In città, gli abitanti sono assoggettati alla Gioia, e tendono a notare in pochi secondi quando un musone irrompe in strada e si comporta diversamente da loro, correndo all’impazzata senza godersi la fittizia tranquillità. Al di fuori, al contrario, la Gioia non ha alcuna utilità, i severi poliziotti pattugliano le strade solamente di notte e non c’è alcun bisogno di ingerire la droga, perché nessuno ha la pretesa né tantomeno la voglia di dirci nulla. Anzi, in questi casi più andiamo ad assomigliare ai poveri, con abiti stracciati e scarpe rotte poiché anche il vestiario influisce sulla percezione che gli NPC hanno di noi, più sarà facile proseguire, a patto di non attraversare domicili e aree private quando finiamo con l’entrare in competizione diretta con gli autoctoni. Ora, in entrambe le macro-aree è dunque necessario mantenere un certo decoro e regole, che variano a seconda della zona appunto. Ma per quale motivo, quando siamo a caccia di componenti per costruire oggetti, possiamo tranquillamente frugare tra i rifiuti in città senza che nessuno ci dica nulla? O ancora, perché Arthur è libero di entrare in alcuni bunker in città che fungono poi da passaggi per il viaggio rapido senza destare il minimo sospetto? Sono comportamenti questi che, per come ci è stato presentato il mondo di Wellington Wells, non possono sembrare normali in città, e proprio per questo non riusciamo a comprenderne la contestualizzazione. Gli oggetti da recuperare, poi, possono annidarsi in soluzioni incomprensibili, che lasciano talvolta il giocatore in balia dello smarrimento.

C’è inoltre da segnalare che l’IA nemica è qualcosa di, a tratti, incomprensibile. Può capitare che il protagonista stia tranquillamente camminando in città e che questi, assolutamente casualmente, venga accusato dai cittadini, con conseguente inseguimento e poliziotti che accorrono in massa per neutralizzarci, cosa che per inciso è la migliore in quei casi dato che non porta ad alcun malus e anzi ci risveglieremo su una panchina senza problemi. In più di una volta, poi, ci siamo ritrovati di fronte a scene surreali: inseguiti dalla polizia, la fuga fallisce e decidiamo di attendere l’inevitabile, ma i nemici ci colpiscono solamente se li stiamo guardando. Capita inoltre che anche dopo averci visto atterrare un NPC gli altri personaggi restino completamente basiti o senza alcuna reazione, lasciandoci liberi di neutralizzare anche loro senza problemi. La silenziosità, peraltro, è il modo più comodo per portare avanti una missione. Tra un approccio stealth e uno diretto, il primo è sicuramente preferibile anche a causa dei combattimenti stessi. Lenti, macchinosi, scomodi, spesso impossibili da completare per gli innumerevoli nemici che ci circondano. Tutto, però, dal combattimento allo stealth, viene funestato dai problemi di natura tecnica di cui We Happy Few è farcito, come vedremo anche tra poco. NPC che scompaiono di fronte ai nostri occhi o che al contrario compaiono proprio mentre stiamo cercando di procedere silenziosamente in un’abitazione o una zona privata, con la missione che finisce per cambiare radicalmente faccia non a causa nostra.

ALLARME ROSSO

Già dal caricamento iniziale, possiamo ammirare come il gioco sia un colabrodo dal punto di vista tecnico, grafico e sonoro. Il logo dell’Unreal Engine in apertura offre solo false speranze: il gioco, nonostante lo stile fantasioso e vicino a quello dei cartoni animati che lo vuole contraddistinguere e con una direzione artistica certamente apprezzata, è graficamente insufficiente, con texture di bassissima risoluzione e molto lente nel caricamento, frequentissimi pop-up e totali sparizioni degli NPC, cosa che rende come già spiegato difficoltosa una fase relativamente semplice di stealth funestata da questi inconvenienti tecnici.

Difficile da capire, per non dire inspiegabile, il framerate instabile anche e soprattutto nel corso delle cutscene, segno di un lavoro ben poco ottimizzato e valorizzato. E se possiamo sorvolare sui caricamenti post-mortem, molto lunghi ma tant’è, siamo rimasti sbalorditi nel vedere che il gioco, concepito come un open world senza soluzioni di continuità, si prende talvolta la briga di interrompere la sessione ed effettuare un nuovo caricamento, evidentemente per caricare modelli degli NPC e texture che fino a poco prima non si vedevano. Qualcos’altro da segnalare? Le animazioni legnose e in alcuni casi completamente inesistenti, e soprattutto i ricorrenti crash del gioco, che sembrano aumentare mano a mano che avanza la storia. Posso però avvisarvi del fatto che questi crash, che hanno portato in un paio di occasioni durante la mia run a save corrotti e inutiizzabili, sembrano limitati alla versione PS4, in quanto su quelle PC e Xbox One non ho rilevato criticità di questo tipo dalle impressioni dei colleghi.

Doppiaggio originale ben realizzato, ma la localizzazione italiana è un altro bollino rosso. Alcune righe di sottotitoli non sono state affatto tradotte, con la conseguenza che ci ritroviamo di tanto in tanto a leggere un dialogo a metà trà la nostra lingua e quella inglese. Se a questo ci uniamo un audio che in alcune cutscene finisce fuori sincrono, con un fastidioso effetto di ritardo che neanche nei film scaricati da eMule si riscontrava, capirete il perché vi stiamo dicendo dall’inizio che la maggior parte delle cose, in questo interessantissimo progetto, è andata storta.

PUNTI DI FORZA

  • Il concept era e rimane molto interessante
  • Gameplay e game design
  • Tra alti e bassi, la storia riesce a intrattenere

PUNTI DEBOLI

  • Dal lato tecnico, tutto
  • Bug e crash sono all’ordine del giorno. Anzi, del minuto
  • Mette a rischio l’integrità della console o del PC per le incazzature
  • Troppe incongruenze nella struttura di gioco

We Happy Few non è un completo disastro, ma Compulsion Games, con la sua condotta suicida, non si presenta certo bene come nuovo studio first party della scuderia di Microsoft. Il gioco ha un concept e una struttura certamente interessanti, la storia riesce a intrattenere e contestualizzare, e la componente survival, seppur semplificata in alcuni aspetti, è ben fatta. Ma è tutto il resto di We Happy Few che ci fa gridare alla delusione più totale. Non mancano momenti di disorientamento completo di fronte alle reazioni degli NPC, i bug e i crash del gioco sono cosa frequentissima, l’Unreal Engine è stato sfruttato malissimo e dal punto di vista visivo, togliendo la direzione artistica quantomeno ispirata, si salva pochissimo. La proceduralità è completamente superflua, il combat system snervante, e aleggia un’aria di superficialità e di incura di dettagli e particolari che fanno pensare che qualcosa sia andato stortissimo durante lo sviluppo, e che Compulsion ad un certo punto non ci abbia più capito niente. Era un titolo molto atteso da chi scrive, un indie sul quale eravamo sicuri di poter parlare bene. Non è stato possibile, anche sforzandosi.

Scritto da
Andrea "Geo" Peroni

Entra a contatto con uno strano oggetto chiamato "videogioco" alla tenera età di 5 anni, e da lì in poi la sua mente sarà focalizzata per sempre sul mondo videoludico. Fan sfegatato della serie Kingdom Hearts e della Marvel Comics, che mi divertono fin da bambino. Cacciatore di Trofei DOP.

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