Sì, ammetto di non aver dosato con dovere le parole. Lo ammetto candidamente e tranquillamente, così come vi confido, col senno di poi, di aver probabilmente scritto l’articolo, che ora non vedete più online sulle nostre pagine, in preda alla “rabbia” se così possiamo definirla, verso un medium come quello dei videogiochi che sembrava essere attaccato nuovamente.
Ricapitoliamo, e cerchiamo di analizzare in maniera più pacata e a sangue freddo quello che è accaduto. Nelle scorse ore il web si è infiammato di fronte ad un nuovo articolo su carta stampata, apparso su Repubblica, nel quale il giornalista Tiziano Toniutti parlava del tragico attentato di Christchurch, in Nuova Zelanda, dove un ragazzo di 28 anni, Branton Tarrant, ha fatto fuoco venerdì 15 marzo su centinaia di persone provocando numerose vittime.
Un attentato dettato dall’ideologia politica di Tarrant, altamente anti-immigrazione, tanto che sul suo fucile, come ho già raccontato nel pezzo precedente sulla questione, vi erano scritti i nomi di altri folli attentatori che hanno già fatto in precedenza quello che Tarrant ha fatto solo pochi giorni fa. Tra questi l’italiano Traini, che nel 2018 sparò a Macerata contro alcuni immigrati africani. Un’altra follia, figlia dell’odio che l’ideologia estremista può portare a compiere se consegnata nelle mani sbagliate.
Nel suo manifesto, che la polizia ha recuperato dopo l’attentato, Tarrant parla di tutto quello che pensa, di come vuole agire, non senza lasciar trasparire una certa vena ironica da troll dell’etere. E in uno di questi passaggi, a sorpresa, si parla anche di videogiochi. L’attentatore, parlando della violenza e dell’estremismo dal mondo dell’intrattenimento, afferma che ci sono in particolare due videogiochi che lo hanno “ispirato”. Spyro 3: Year of the Dragon, ad esempio, gli ha insegnato l’etnonazionalismo (per chi non lo sapesse, da Treccani: “nazionalismo etnico, che fa proprie e rivendica le tradizioni di un gruppo etnico, di un popolo”). Fortnite, invece, lo ha addestrato per farlo diventare un killer.
Un troll di Tarrant? Probabile, non lo sappiamo ma è una questione da prendere con le pinze. Il problema nasce quando la stampa scopre che Tarrant è in qualche modo legato a Fortnite, il fenomeno mondiale di massa che ormai è dappertutto: in TV, nelle fiere, sui cellulari, nei negozi, ad eventi di qualsiasi tipo, ovunque. E su La Repubblica, nell’edizione odierna, ecco che Fortnite e il nome di Tarrant vengono abilmente accostati in un trafiletto che vi riporto integralmente qui sotto con un’immagine.
Molti, moltissimi, hanno fatto l’errore di fermarsi al solo titolo del pezzo:
Punti, spari e vai avanti. Si allenava con Fortnite
Un titolo che lascia sinceramente ben poco all’immaginazione, e che sembra ricondurre la strage di Christchurch ad una delle passioni di Tarrant, che ne avrebbe sfruttato le potenzialità per allenarsi e presentarsi poi preparato di tutto punto il 15 marzo, giorno scelto per compiere l’efferato atto. Ecco, molti, sul web e non solo, si sono fermati e si fermeranno esclusivamente a questo: il titolo. Un titolo che, a dire il vero, c’entra davvero poco o nulla con il pezzo di Toniutti, che anzi in alcune righe più sotto si lancia in una sorta di difesa a favore dei videogiochi nonostante poco prima sembri condannarli nuovamente come responsabili (in parte) di ciò che è accaduto.
L’aggettivo “sanguinoso”, in un lettore magari inesperto di videogiochi, collegato a quel titolo, non può che far scattare la molla dell’accusa. L’attentatore giocava a Fortnite, Fortnite è un gioco sanguinoso e nel quale vige la regola del “chi rimane ultimo, vince”, dunque Fortnite è un gioco da condannare per quello che ha provocato.
Nel mio pezzo di stamattina, nel quale condannavo le parole di Toniutti per come sembrasse trasparire una visione distorta dei videogiochi dalle sue parole (e vi ripeto, il pezzo ho deciso di cestinarlo in quanto non lo ritengo più opportuno), non ho dato il giusto peso a ciò che lo stesso giornalista fa poco dopo aver raccontato cosa sia Fortnite e della violenza ad esso legata (discorso che continuo a pensare sia sbagliato in quanto non inerente al pezzo, ma tant’è).
Nella seconda parte del trafiletto, Toniutti parla infatti di Fortnite e della finzione, che non può e non deve essere confusa con la realtà dei fatti, e cioè quella di un uomo malato con ideologie malate. Come lui stesso afferma:
Un omicidio di massa non nasce e non matura all’interno di quello che è, pur con tutta la violenza simulata che può contenere, pur sempre un gioco.
Ho avuto modo di parlare, sia su post pubblici che in privato, con Francesco Fossetti di Everyeye, che non condivide interamente il mio pensiero, quello cioè di un pezzo che, per lo vedo io, può essere mal interpretato da molti. Perché è vero che Toniutti cerca di far ragionare il lettore, parlando di cos’è Fortnite e del fatto che si tratti pur sempre di finzione. Ma è anche vero che le prime righe dell’articolo, alle quali aggiungo un titolo che definire ampiamente ingannevole, sembrano suggerire tutt’altro.
Io non condanno il messaggio di fondo del pezzo di Repubblica, che si schiera anzi a favore dei videogiochi. Tutt’altro. Rimango deluso da come questo messaggio è stato raccontato, specialmente ad un pubblico che, immagino (non mi sono informato sul target di riferimento del quotidiano romano), non mastica videogiochi come noi. Già vedo genitori che ritagliano il titolo di questo articolo per farne cartelloni da appendere nelle scuole e per farne cortei, per, ancora una volta, condannare i videogiochi che tengono incollati i bambini allo schermo e ne danneggiano le menti. Perché è questo il timore, e cioè che di questo articolo venga notato e ricordato solamente il titolo, come del resto spesso accade anche su YouTube, Facebook e tutto il resto.
Quello di Toniutti è, a tutti gli effetti, un non-attacco ai videogiochi mascherato però molto male, per come l’ho interpretato io. Perché la mente di molti, di troppi, è ancora concentrata sul “i videogiochi sono il male”, e vistosi titoli come questo non fanno altro che gettare benzina sul fuoco se non si va a vedere il contenuto.
Per concludere, come ho già detto in apertura riconosco i miei errori, e riconosco di aver utilizzato toni di cui non c’era bisogno. Col senno di poi, avrei comunque gettato ombre su alcune scelte dell’autore (o di chi per lui in virtù del titolo, dato che potrebbe non averlo composto di persona) ma senza accanirmi eccessivamente sulla persona, verso la quale comunque non ho mai voluto arrecare danno. Su questo articolo di Repubblica si potrebbe fare più di una riflessione, e le correnti di pensiero spaziano tra chi non lo approva e chi ne difende le scelte, come ho notato in vari post su Facebook. Ma rimango fermo su alcune mie considerazioni, come vi ho raccontato, e sul fatto che potessero essere scelte ben altre parole per l’articolo di Repubblica per esprimere un concetto importante come quello.
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