I primi episodi di National Treasure: Edge of History, in italiano tradotto con il banalissimo titolo de Il Mistero dei Templari: La serie, non ci avevano particolarmente convinto. Lenti, fin troppo riflessivi, assurdamente incentrati su personaggi dei quali gli sceneggiatori volevano raccontare di tutto e di più per far empatizzare lo spettatore, finendo per inseguire cliché fastidiosi. La serie, da pochi giorni, si è conclusa con il decimo e ultimo episodio della prima (?) stagione, e possiamo finalmente fare un resoconto completo su una serie molto attesa da chi scrive questa recensione.
Sì perché la saga cinematografica di National Treasure, per un motivo o per l’altro, è rimasta impressa nella mia mente. Il Mistero dei Templari, nel 2004, seppe coprire quello spazio lasciato vuoto da ormai troppo tempo da Indiana Jones in fatto di film basati su cacciatori di tesori e grandi avventure, aggiungendo al tutto anche quella componente da “heist movie” grazie alla quale il protagonista, Benjamin Gates (Nicolas Cage), si rendeva protagonista di missioni al limite del pensabile, dalla caccia ai segreti della Liberty Bell al memorabile furto della Dichiarazione d’Indipendenza. Molto più debole fu invece l’impatto de Il Mistero delle Pagine Perdute (National Treasure: Book of Secrets), che prendeva tutti i difetti del primo film e li amplificava arrivando a situazioni al limite del normale – “Rapirò il Presidente degli Stati Uniti” è una frase ancora oggi leggendaria e allo stesso tempo completamente non credibile.
Ciononostante, National Treasure ha sempre nascosto un grande potenziale, e Edge of History, arrivato oltre 15 anni dopo l’uscita del secondo film, è stato chiaramente pensato dal produttore Jerry Bruckheimer come speranza, come trampolino di lancio per l’ipotetico ritorno di Gates e della caccia ai tesori sulle scene. E sebbene la partenza non sia stata particolarmente incoraggiante, la serie è riuscita a trovare una certa quadra nel suo intreccio, prendendosi anche la libertà, con un certo ingegno, di riscrivere l’immaginario di National Treasure in una chiave tutta nuova.
Un pregio, infatti, Edge of History lo ha, e cioè quello di prendere la mitologia del suo mondo e reinventarla con un’operazione di retcon che in fin dei conti funziona. La storia di Jess Valenzuela (la brava Lisette Olivera, anche se fin troppo perfetta e infallibile) è una sorta di pretesto per spiegare agli spettatori che anche il mondo dei cacciatori di tesori è fatto di luci e ombre, con persone in cerca della verità e gruppi che invece si pongono come unico obiettivo la distruzione, l’insabbiamento e la preservazione delle attuali convinzioni – i conservatori, in pratica. Prendendo dai film qualche interessante elemento di collegamento, gli autori di Edge of History reinventano personaggi e situazioni note, offrendo una lettura interessante fatta di intrighi, organizzazioni segrete e complotti. Proprio come ha sempre creduto Benjamin Gates, in effetti.
Tolto questo affascinante aspetto, Il Mistero dei Templari: La serie non si può certo definire un prodotto imperdibile o particolarmente ispirato, nonostante le interessanti possibilità a disposizione. Partendo dall’inevitabile confronto con i due film, che comunque hanno sulle spalle quasi una ventina d’anni, Edge of History ne esce con le ossa rotte, tra scenografie degne di Gardaland e spazi eccessivamente finti che rompono quelle atmosfere fatte di avventura e archeologia che le vicende di Gates riuscivano a restituire, seppur con tutti i difetti del mondo. Il fatto di aver poi replicato in tutto e per tutto la formula dei film, diluendo una sceneggiatura tipicamente cinematografica con interminabili minuti di dialoghi o procrastinazioni, non è certo un punto a favore. E per favore, qualcuno dica a Trevor Rabin che possono passare più di 3 secondi di narrazione senza dover inserire una musica in sottofondo. Piacevole la sensazione dei riarrangiamenti del passato, ma quando è troppo è troppo.
Edge of History è una sorta di emulo di Book of Secrets, avendo preso forse gli aspetti più problematici della saga. I protagonisti della serie, ad esempio, sono fin troppo giovani per le incredibili e mirabolanti imprese di cui si rendono protagonisti. Il portatile di Tasha (Zuri Reed) è uno dei tanti esempi di deus ex machina per eccellenza della trama della serie, rivelandosi un oggetto che include tutto lo scibile umano e oltre. Ma non l’unico, chiaramente, per mandare avanti una storia che inizia a zoppicare sin dai primi episodi, forse (anzi, ne siamo quasi certi) per la necessità di mandare avanti Edge of History per 10 episodi.
Il risultato è che i personaggi risultano piatti e anonimi, con pochi di essi salvati solo in corner da qualche plot twist tutto sommato apprezzato. In generale, tuttavia, ci si aspettava qualcosa di più. Billie Pearce, interpretata da Catherine Zeta-Jones, non ha neanche un briciolo del carisma dei precedenti antagonisti del franchise (che comunque non erano questi mostri di profondità e motivazioni, ecco), e l’attrice sembra per tutto il tempo ancora intrappolata nell’apatico ruolo di Morticia Addams in Mercoledì.
Quello di National Treasure non è un gran ritorno. Il suo più grande problema è quello di non aver fatto affezionare nessuno a nessun personaggio, schiacciati da cliché o personalità per nulla interessanti, a differenza invece dei protagonisti e co-protagonisti dei film sempre ben delineati anche da poche linee di dialogo. Se non altro, abbiamo trovato un altro pregio, proprio in chiusura di recensione: abbiamo proprio tanta voglia di vedere quel National Treasure 3 tanto rumoreggiato sul grande schermo, perché il potenziale, questo franchise, l’ha sempre avuto.
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