Non è più come tanti anni fa, dove la gente lasciava le porte degli appartamenti aperte e tutto il palazzo sembrava una grande casa. Dove potevi entrare liberamente da appartamento ad appartamento, mangiare tranquillamente da chi volevi. Sembrava di stare in una grande famiglia, ma adesso è diverso.
Queste sono le parole che il padre di Scorsese dice nel piccolo documentario del 1974 Italianamerican. Dove il ragazzo Martin Scorsese decide di filmare i suoi genitori mentre pranzano e parlano della loro esperienza americana da immigrati italiani. In quel filmato c’è tutto l’amore di Scorsese per il cinema, che viene usato come mezzo per preservare una storia e per catturare e rendere infinito quel momento, con i suoi genitori, in cui scherzano, raccontano e battibeccano fra loro. Quarantanove anni dopo, il suo amore per il cinema rimane.
Recensione a cura di Luca Zenesini.
Killers of the Flower Moon parla proprio di questo. Di come l’America sia diventata un posto pericoloso, di come la diffidenza sia diventata la vera moneta di scambio americana e di quanto sia importante preservare le storie e la verità. Perché gli americani hanno preso tutto, togliendolo a popolazioni con una propria storia e una propria cultura che sono state cancellate col tempo. Questo in nome di una narrazione tutta americana, in cui tutto deve essere loro, perché solo loro se lo sono guadagnati. Loro sono il progresso, ciò che schiaccia e cancella per creare il futuro.
Per Scorsese il cinema può venire usato proprio per combattere la tendenza dei vincitori a cancellare i vinti dalla storia. Per sconfiggere la narrativa costruita da chi ha potere, in cui certe storie vengono omesse per nascondere i lati oscuri della vittoria. E in questa storia i lati oscuri vengono a galla tutti, dalla massoneria al Ku Klux Klan, dalla nullafacenza del governo al potere che viene dato ai soldi, dagli inganni ai morti. Scorsese imprime questi crimini e fatti di cronaca con minuzia e con pari importanza a come viene preservata l’America del tempo. Attraverso filmati in bianco e nero, foto, cinegiornali e radio, infatti, noi vediamo ridipingersi un’epoca, ma è solo attraverso le testimonianze e l’occhio di Scorsese che noi vediamo la verità che c’è dietro.
La cultura dimenticata degli Osage, i nativi presi di mira per il loro petrolio, diventa la vera protagonista del film. Il rispetto che usa Scorsese per rappresentare ogni loro cerimonia, ogni loro costume, ogni caratteristica dei loro usi, dimostra il senso di responsabilità del regista. La sua volontà di non far dimenticare alla storia questa popolazione. Il loro forte legame con la natura viene sottolineato da una fotografia che ne esalta i colori e saturizza l’oscurità data dalla corruzione americana. Anche la regia si lascia guidare dalla natura e dagli eventi atmosferici, lo vediamo in ogni ripresa in esterno e soprattutto nella poetica scena della tempesta (in completa opposizione alla scena quasi surreale dell’incendio).
Gli usi e le cerimonie degli Osage prendono più importanza delle istituzioni americane, non solo perché i nativi sono i possessori del petrolio, ma perché le istituzioni sono instabili, fragili e ancora acerbe. Sono guidate da corruzione, inganni, sono solo fili mossi da William “The King” Hale, interpretato da Robert De Niro. Una sorta di faraone che si innalza alla pari di un Dio fuori dal tempo. Un uomo che non riesce a confrontarsi con la verità dello scorrere del tempo. Un’immobile giocoliere che si arrampica, scavalca e spinge pur di tenere le sue radici parassitarie avvinghiate al suolo.
Tipica di Hale (come di un certo tipo di America) è la strumentalizzazione degli altri. Le altre persone vengono viste solo come un mezzo, un tramite per arrivare a qualcos’altro. Questo suo modo di vedere gli altri lo troviamo rispecchiato nel suo continuo oggettivizzare i nativi, chiamandoli “coperte” o pelle-rossa, o nel momento in cui sfrutta il loro dolore girandogli intorno come un avvoltoio. Uno degli strumenti utilizzati da Hale è proprio Ernest Burkhart, interpretato da un fenomenale Leonardo DiCaprio. Con il muso che sembra una lattina di Coca-Cola (fin troppo zuccherata) sempre sul punto di scoppiare. Una vittima e carnefice della cieca mitologia americana; l’American Dream che Scorsese, e tutta la nuova Hollywood degli anni 70, ha sempre voluto demistificare e distruggere con cura. Una vittima dell’abbondanza, colpevole di volere sempre di più, simile a un Hansel cresciuto in una casa di marzapane da una strega col volto stelle e strisce.
La vittima di tutto ciò è Mollie Burkhart, interpretata da un’enigmatica Lily Gladstone. Un personaggio che riesce a rappresentare perfettamente il modo in cui la sua comunità viene trattata; in una patria che pian piano diventa una terra straniera, fino a trasformarsi in un inferno terrestre. Una donna piena di dualità. Forte, ma debole. Ferma, ma compassionevole. Sospettosa, ma ingenua. Un turbine di caratteristiche e personalità che si mescolano fra loro, sfociando in paranoia totale. Una paranoia che riesce a trasformare i vari piani sequenza, da dolci e accesi, a lenti e orrorifici.
Il comparto tecnico del film (come in ogni film di Scorsese) è fenomenale. Una colonna sonora che sottolinea la continua tensione della storia e riesce perfettamente a mescolare i ritmi degli Osage, con delle intromissioni sonore che rispecchiano l’America degli Anni 20. Un montaggio che si appropria di scene violente e intense, interrotte bruscamente dal silenzio di riprese concentrate nei dettagli (che richiama molto l’uso dei dettagli e dei primissimi piani del cinema muto). Un’armeria di inquadrature diverse, tutte tipiche del cinema di Scorsese. Con gli zoom che ci fanno entrare negli intrighi della cittadina dell’Oklahoma, le carrellate che intensificano la dinamicità degli eventi, i piani sequenza e le soggettive che ci spostano tra sguardi predatori e le inquadrature statiche (soprattutto quelle dall’alto, le cosiddette “God’s-eye view”) che ci offrono distacco per poter giudicare la storia.
In tutto il cinema di Scorsese, infatti, il pubblico funge quasi come una sorta di divinità, a cui spetta l’inconsapevole compito di giudicare le azioni dei personaggi che vede muoversi nello schermo. Tenendo sempre a mente le loro motivazioni e le loro storie che li hanno portati a quelle azioni. Questa volta, attraverso un finale meta-cinematografico, pone perfino sé stesso nel banco degli imputati. Sottolineando la sua possibile spettacolarizzazione, ma giustificandosi con la necessità di raccontare la verità di una storia che ha costruito ciò che oggi chiamiamo USA.
Perché per capire le varie mentalità che oggi si diffondono, bisogna fare i conti con ciò che siamo stati. Scorsese, volente o nolente, richiama tutto il suo passato con questo film. Non solo con la presenza dei due grandi divi Robert De Niro e Leonardo DiCaprio che l’hanno accompagnato per le due grandi fasi della sua carriera, ma anche a livello tematico. Vediamo la lettera d’amore al cinema che già era presente come tema centrale in Hugo Cabret. Le criminalità organizzate con le sue regole seguite come fossero una fede religiosa, già presenti in Quei Bravi Ragazzi e Casinò. La cultura predatoria del capitalismo americano in The Wolf of Wall Street. Lo scorrere del tempo che non risparmia nessuno in The Irishman. Un Dio che appare solo nei silenzi e nel suo non-agire come quello presente in The Silence. La paranoia che abbiamo visto in Shutter Island e The Aviator. E come in Gangs of New York, Scorsese, mette allo scoperto le radici sanguinarie di un America che ha portato al presente già mostrato in film come Taxi Driver e Re per una notte.
In conclusione, il film riesce perfettamente a trattare varie tematiche tutte molto complesse, usando immagini molto più chiarificatrici delle parole. Il tocco di Scorsese c’è tutto, andando a riprendere molto dalla sua filmografia, ma riuscendo lo stesso ad avere un’identità tutta sua. Personalmente credo che sia un capolavoro (anche se questo sarà solo il tempo a deciderlo), ma da Scorsese non ci si poteva aspettare altro. Detto questo, non vedo l’ora del suo prossimo lavoro, qualsiasi cosa sia.
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