Dopo una carriera di attrice di circa 23 anni, Paola Cortellesi decide di mettersi dietro la macchina da presa. Lo fa dopo aver passato tutti questi anni a guardare i vari registi che l’hanno diretta, imparando e rubando qualcosa da ognuno di loro. Come Riccardo Milani, suo marito, oppure Giuseppe Bonito, regista di Figli (2020) la cui voglia di sperimentare nella commedia si riflette anche in questo film.
Recensione a cura di Luca Zenesini.
La Cortellesi non prende solo dai film di cui ha fatto parte, ma dimostra anche di avere una grande conoscenza per quanto riguarda il cinema in generale. Gran parte del film, grazie all’aiuto del bianco e nero, ricorda molto il neorealismo italiano del dopoguerra, la corrente di forte critica sociale che ci ha resi famosi in tutto il mondo. In cui si mostrava la battaglia quotidiana di persone comuni, per cercare di andare avanti in un’Italia ferita e distratta. La neoregista decide di svecchiare e ribaltare il genere, grazie a delle sequenze che toccano il surrealismo moderno, creando forte contrasto tra la cruda realtà e la volontà di raccontare una storia.
Con questo debutto alla regia, infatti, la Cortellesi dimostra di avere coraggio e tanta volontà di sperimentare. Una regia che si diverte nel non puntare sul sicuro e che riesce ad utilizzare una comicità che va da quella tipica degli slapstick del cinema muto, fino a quella piena di battute grottesche tipica di una dark comedy molto più moderna. Una comicità che si fa scherno delle imposizioni che gravavano (e molte sembrano ancora gravare) sulla figura femminile in Italia. Sfortunatamente i momenti comici sono un po’ disordinati, risultando in un ritmo imperfetto, ma che riesce lo stesso a funzionare nonostante la difficile coesistenza della tragicità di una quotidianità violenta e la voglia di ridere e sorridere.
Molto originale è anche l’utilizzo del suono, in un film che sembra quasi essere un musical disincantato su una realtà senza colori vivaci, lustrini o glitter. Con dei silenzi che fanno sentire il loro peso e ci mostrano una realtà alla quale spesso noi preferiamo non guardare in faccia. Canzoni d’epoca che si uniscono a quelle moderne creando un film che non vuole restare ancorato al passato. L’utilizzo di sonorità moderne che accompagnano immagini di un’altra epoca, ricorda molto lo stile di ribellione giovanile (e femminile) tipica del cinema di Sofia Coppola, dove la ribellione è simbolo di progresso e cambiamento. Dove i passi verso il futuro si fanno soprattutto mettendo in discussione le figure tipiche del passato, figlie di una struttura sociale che avvantaggia solo un gruppo a discapito degli altri.
La scena che colpisce di più è quella che più delle altre mostra la volontà di sperimentare col suono. La violenza viene mostrata come una danza feroce e quasi coreografata proprio per la sua ripetitività. La canzone è in completo contrasto con le immagini che ci si pongono davanti, dando un significato grottesco al testo che stiamo ascoltando. Mostrando un tipo di “amore” che fortunatamente non è più accettato (anche se i casi di cronaca ci mostrano come esso sia ancora diffuso). Un “amore” malato, violento, in cui esiste soltanto una persona, mentre l’altra è solo un oggetto. Un “amore” che dimostra di essere tutt’altro.
Il film parla principalmente della situazione femminile in una società fortemente patriarcale come quella dell’Italia del dopoguerra. Una società in cui è comune fare spallucce alla violenza quotidiana che trasforma un piccolo errore di ogni giorno, in una ferita che può rovinare intere giornate e intere generazioni. Lo status femminile viene esaminato con cura e in maniera tragicomica, confrontandolo con quello di adesso, in cui certe cose sembrano non essere cambiate.
Una tacita sofferenza è quella che vediamo segnata nel volto della Cortellesi, che qui vediamo scavato e stanco. Le ombre sugli occhi e sulle guance, ci danno l’immagine di una donna vittima dei suoi silenzi. Dei silenzi che sembrano dire mille parole non permesse. Una donna di casa, che una casa non ce l’ha. Perché il luogo in cui abita sembra per lei più un posto di lavoro dove c’è sempre da fare qualcosa. Non sta mai ferma, anche se bloccata in una monotonia che la tiene sempre lì. Imprigionata da un uomo vuoto e monotono interpretato da Valerio Mastrandrea, che offre una buona performance, anche se indossata da un personaggio un po’ troppo piatto e stereotipico (seppur funzionale al racconto).
Anche se la sequenza iniziale e quella finale sono fra le migliori scene del film, mostrano il problema principale della pellicola; ovvero la volontà di collegare due temi molto diversi tra loro in modo fin troppo semplicistico ed ingenuo. Il tema dello status quo femminile è quello principale ed esaminato per la maggior parte del film, mentre il secondo tema (che non esporrò per evitare spoiler) viene tirato fuori solo negli ultimi minuti, implicando questo possa fungere da soluzione al primo, quando sfortunatamente la realtà è molto più complessa di così. Ovviamente quello è un tassello che può far cambiare le cose, ma non basta. Il cambiamento deve arrivare anche dall’altra parte.
Effettivamente il tema principale che viene affrontato sa un po’ di vecchio e di già visto. Ma questo non è affatto colpa di una mancanza di originalità nella sceneggiatura, in quanto, come il film stesso fa intendere, la colpa è da attribuire al nostro paese. Un paese fermo, vecchio e permanentemente in bianco e nero, in cui un tema del genere è sfortunatamente ancora attuale e necessario da affrontare. Infatti, chiamare questo film “novità” o “una ventata d’aria fresca”, riferendosi al panorama del cinema italiano mainstream è giusto, ma allo stesso tempo dimostra come il nostro cinema commerciale sia stato fermo da fin troppo tempo.
Alla fine, il film è una storia italiana non sufficientemente raccontata, che ci fa capire i sacrifici e lo sforzo che stanno dietro alla libertà data tanto per scontato. Con un finale speranzoso che richiama il titolo del film. Sottolineando però che il domani non arriva da solo, ma siamo noi che gli dobbiamo andare in contro. Siamo noi che dobbiamo analizzare ciò che è stato, attraverso l’istruzione e la cultura, per poter cambiare ciò che saremo domani.
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