Banjo-Tooie è uno di quei giochi che hanno segnato indelebilmente la storia di Rare come lo studio più talentuoso degli anni ’90, ed è paradossale se si pensa che da quel momento in poi il dinamico duo composto dall’orso Banjo e il breegull Kazooie si limiterà a pochissime e disparate comparsate, salvo il particolare sequel Viti & Bulloni. Paradossale, sì, perché il secondo capitolo della saga alzava talmente tanto l’asticella da risultare familiare e allo stesso tempo qualcosa di nuovo. Di clamoroso.
Con più di 3 milioni e mezzo di copie vendute, Banjo-Kazooie fu un enorme successo per Rare e Nintendo. Naturale che la Grande N, che ancora voleva spremere il più possibile la sua console ammiraglia prima di pensare al futuro con GameCube, chiedesse alla software house di procedere immediatamente con lo sviluppo del secondo capitolo, e così fu. Nel giugno del 1998, praticamente in contemporanea con il lancio nordamericano di Banjo-Kazooie e fiutato l’odore di successo che si respirava nell’aria, Rare inizia quindi subito la progettazione di quello che, per un gioco di parole tra Two (per il capitolo 2, ovviamente) e la parola Kazooie, verrà nominato Banjo-Tooie.
La filosofia alla base di Banjo-Tooie fu quella dell’esagerazione, dell’ostentazione e della voglia di mostrare al mondo cosa potessero plasmare le menti di Rare già amate per il primo capitolo ma che avevano ancora centinaia di idee da partorire. Per lo stesso primo capitolo, Rare, forse a causa del tempo o per limiti invalicabili, aveva pensato a molte più feature e contenuti, che poi vennero tagliati. Con il secondo gioco, il cui sviluppo come detto venne iniziato addirittura prima del lancio di Banjo-Kazooie, vennero in parte recuperate queste idee, tra le quali alcuni mondi (anche se Rare non ha mai specificato quali) e addirittura il multigiocatore. Ma quello che più premeva agli sviluppatori, in quel momento, era evolvere la formula. Il sequel di Banjo-Kazooie non sarebbe stato semplicemente un altro platform, ma qualcosa di diverso.
L’head artist Steve Mayles anche non troppo tempo fa a Bitmap Books, in occasione della realizzazione di N64: A Visual Compendium:
Non abbiamo cercato di fare la stessa cosa ancora del primo gioco, volevamo sorprendere i giocatori. Non credo che nessuno si aspettasse che avremmo ucciso uno dei personaggi di supporto principali, e ricordo ancora le nostre risate quando abbiamo deciso il destino di Bottles. C’erano alcuni elementi dark e maturi molto interessanti, che volevamo bilanciare con l’humor; la parte da me preferita penso sia quando la famiglia di Bottles chiede di lui e Banjo pretende di fare finta di non sapere nulla.
Anche il designer Steve Malpass ricorda il profondo cambio di filosofia alla base di Banjo-Tooie, in quanto “Tooie era più inteso come un’avventura e meno come un gioco platform rispetto a Banjo-Kazooie”, ricordando poi alcuni importanti elementi del level design come l’incredibile connessione tra i vari mondi. E già qui, effettivamente, anche un occhio inesperto poteva notare alcuni passi da gigante in avanti da parte di Rare.
Per questo secondo capitolo, Rare decise infatti di fare le cose davvero in grande, andando a rompere anche alcune convinzioni tipiche dei platform in quegli anni: l’hub di gioco non è più una semplice mappa dalla quale accedere ai vari mondi, come accadeva in Super Mario 64 o nel precedente capitolo, ma una tentacolare e viva esperienza che influenzava persino i vari mondi associati, alcuni dei quali connessi tra loro in modo imprevedibile. L’espediente narrativo dell’Isola O’Hags, un’altra parte del mondo di Banjo e Kazooie mai vista prima, consente di dar vita ad ambientazioni tutte nuove, molto più grandi e con meccaniche prima solo abbozzate e ora invece divenute realtà.
Per un fan di Banjo-Kazooie, Tooie era quasi spiazzante, sin dai primi minuti di gioco. Dopo aver lasciato una Spiral Mountain devastata dalle sorelle di Gruntilda, ridotta a un cumulo di ossa ma sempre temibile – e ancora capace di parlare in rima, ovviamente – ecco che si parte subito con le novità. Klungo, ad esempio. Lo scagnozzo di Gruntilda è infatti il primo boss da affrontare per accedere al villaggio dei Jinjo e Re Jinjaling – e via di altre novità. La cura nella regia e nei dettagli, oltre al fatto di aver costruito sapientemente le aree per spingere i giocatori all’esplorazione, era evidente. Nella sola Spiral Mountain, ad esempio, c’erano alcune nuove aree all’inizio inaccessibili, nelle quali dovevamo tornare solo dopo aver imparato una delle tantissime nuove mosse per il duo.
Meccaniche di questo tipo erano solo state abbozzate in precedenza, ma questa volta diventano un vero elemento del gioco. Nel primo capitolo, ad esempio, nel covo di Gruntilda potevamo avere un’anticipazione su alcuni mondi come Click Clock Wood, o su Bubblegloop Swamp potevamo vedere per la prima volta le scarpe da corsa di Kazooie, che in realtà potevano essere sbloccate solo visitando Gobi’s Valley, il mondo desertico più avanti nel corso del gioco – mamma mia che ricordi anche solo nominando questi luoghi della nostra infanzia.
In Banjo-Tooie invece le cose erano diverse. Erano più grandi, ricche, quasi spaesavano il giocatore. Il senso di vivere una vera avventura era tangibile, il platforming quasi passava in secondo piano, così come l’essenza collectathon del titolo, pur mantenendone i saldi principi. Non vi nego che nella mia prima partita su Banjo-Tooie ebbi la necessità di utilizzare un taccuino per segnare tutto quello che incontravo, dimenticavo, scoprivo, ricordavo. Il level design era su un livello totalmente diverso da Banjo-Kazooie, eravamo di fronte a un titolo concettualmente nel futuro.
I vari mondi, ad esempio, venivano progressivamente sbloccati dai protagonisti e interconnessi tra loro da un sistema di passaggi segreti (immaginate lo stupore di chi, su Mayahem Temple, si ritrovavano a due passi da un mondo che sarebbe stato visitabile quasi a fine gioco, il preistorico Terrydactyland), o con il famoso treno. A Glitter Gulch Mine, una coloratissima e labirintica miniera nella quale perdersi era all’ordine del giorno per un occhio inesperto, Banjo e Kazooie liberavano infatti il mezzo di trasporto che aveva poi stazioni in tutte le Isole O’Hags, consentendo così ad alcuni personaggi di spostarsi o di arricchire le missioni con chicche che nel primo capitolo non erano possibili.
Si iniziava così ai piedi di un antico tempio ispirato alla civiltà Maya, con tanto di idolo-divinità imbestialito contro il mondo, a una miniera con massi da distruggere e TNT da far saltare in aria grazie alla nuova trasformazione di Humba Wumba, la sciamana nativa americana che prendeva il posto di Mumbo come dominatrice della sfera magica di questo universo. Come dimenticare poi Witchyworld, un gigantesco parco a tema creato da Gruntilda per far divertire tutti quanti (o forse terrorizzarli?) con aree dedicate agli alieni, al far west e tanto altro, senza dimenticare persino i crossover con i successivi mondi che avremmo visitato solo successivamente. E intanto, anche nelle Isole O’Hags si percepiva che la natura quasi metroidvania del tutto si faceva sempre più imponente, cercando addirittura di dare una spiegazione ai celebri Stop n’Swap del primo capitolo che Rare sperava di trasformare in un concept innovativo.
Come detto in precedenza, questa evoluzione era stata decisa dal team di Rare di fronte al cambiamento di paradigma, poiché ora i mondi non erano più compartimenti stagni ma parte di un tutt’uno. Per quanto ad esempio mondi del primo gioco come Freezeezy Peak o Rusty Bucket Bay risultassero abbastanza grandi, l’impressione era pur sempre quella di aree abbastanza limitate. Con Banjo-Tooie si ha invece l’impressione opposta, quella cioè di un gioco che a un certo punto si è reso conto di non avere limiti neppure a livello di hardware – il che è impressionante, se si pensa all’anno di riferimento.
Ma al di là delle ambientazioni, un campo sul quale la serie ha sempre stupito, in cosa Banjo-Tooie si è davvero guadagnato il suo status di pietra miliare di questo genere? Il suo predecessore era divenuto famoso per le numerose mosse che il duo acquisiva nel corso della sua avventura grazie ai suggerimenti della talpa Bottles, dallo scudo protettivo alla beccata in volo, e vantava già di per sé una grande varietà di azioni e situazioni, molto più rispetto al rivale Super Mario 64. In Banjo-Tooie, questo effetto viene amplificato a dismisura. Gli sviluppatori inserirono novità nelle meccaniche di ogni tipo, come ad esempio la possibilità di scindere il duo e utilizzare uno tra Banjo e Kazooie a seconda delle necessità, ognuno con una sua fisica e il suo modo di agire, o addirittura di impersonare il buon Mumbo per sbloccare aree intrise di magia o impenetrabili per i due.
Sin dal primo mondo, Mayahem Temple, ci si accorge che il gioco ha un sapore similare ma allo stesso tempo molto più ambizioso. Basti pensare alla fase “sparatutto in prima persona” à la Wolfenstein sulla cima del tempio centrale del mondo. Banjo-Tooie era straordinario in ogni suo aspetto, superiore notevolmente al suo predecessore. Eppure, forse possiamo dire che fu proprio questa notevole mole di contenuti e meccaniche a indispettire alcuni giocatori, che gli preferiscono il primo capitolo.
Questo sequel, sotto certi aspetti, era anche troppo. Davvero troppo. Davvero grande, a tratti dispersivo. Mondi come Grunty Industries sono quasi un incubo nelle prime visite, poiché perdersi è all’ordine del giorno, e questo si notava. Banalmente, completare un mondo al 100% alla prima visita era impossibile. No davvero, persino nel primo dei tanti stage a disposizione, la necessità di andare oltre e dedicarsi ad altro prima di poter tornare in queste zone e ottenere tutto l’ottenibile, dalle classiche note musicali (qui molto ridimensionate) ai fondamentali Jiggies, era un obbligo.
Ma nella sua volontà di evolversi, Banjo-Tooie era perfetto. Il gioco sapeva bilanciare la difficoltà con la precisione del suo predecessore e la capacità di inserire nuove mosse senza farne sparire altre, e dando a ciascuna di esse il giusto spazio. Rare si prese anche la briga di inserire frequenti boss fight all’interno dei livelli, quando invece nel primo capitolo l’unica era quella contro Gruntilda alla fine del gioco, e si spazia da un gigantesco dinosauro gonfiabile con palloncini patchwork a un vecchio e scontroso pezzo di carbone. O i due giganteschi draghi che comandano forse il mondo più bello del titolo, Hailfire Peaks, un monte diviso esattamente a metà: un lato è completamente vulcanico, l’altro è invece una immensa distesa di neve e ghiacciai. Un concept magnifico per un’ambientazione unica, paragonabile solo alla maestosità di Click Clock Wood del primo capitolo che proponeva la stessa area da esplorare ma in quattro stagioni differenti.
Rigiocato e riassaporato oggi, Banjo-Tooie è ancora un gioco meraviglioso, che lascia a bocca aperta. Un capolavoro di tecnica e arte, in tutti i sensi. I livelli sono realizzati in modo fantastico e quasi clamoroso, l’umorismo è onnipresente, le OST di Grant Kirkhope restano pezzi di storia della musica, e molta cura è stata dedicata alla creazione di un’avventura di proporzioni epiche, su un piano esagerato rispetto al predecessore. Il suo unico, vero, grande difetto è quello di aver voluto fare il passo più lungo della gamba (di Kazooie). I mondi sono leggermente troppo grandi, ci sono alcune mosse in più del necessario e giocare come Mumbo Jumbo, purtroppo, ha aggiunto poco valore. Sapendo dedicare il giusto tempo a quest’opera, però, questi sono aspetti ampiamente perdonabili.
Banjo-Tooie è una delle gemme più preziose nella storia dei platform di Rare e di Nintendo, e chissà che qualcuno, un giorno, non deciderà di realizzarne un remake grafico come accaduto ad altri esponenti del genere degli anni ’90. Microsoft, che dici? Ci proviamo?
Se volete saperne di più sulla serie, vi rimandiamo alle parti 1 e 2 della nostra lunga retrospettiva Lezioni di Storia.
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