Home Videogiochi Rubriche La storia dei videogiochi di Indiana Jones (Parte 2) | Lezioni di Storia

La storia dei videogiochi di Indiana Jones (Parte 2) | Lezioni di Storia

Prosegue oggi la nostra retrospettiva dedicata ai videogiochi di Indiana Jones, l’icona del cinema interpretata da Harrison Ford.

In vista del nuovo videogioco di MachineGames Indiana Jones e l’Antico Cerchio, di cui vi proporremo tra poche ore la nostra recensione, continuiamo quindi il racconto a partire dalla fine degli anni ’80 per arrivare poi alle indimenticabili avventure testuali di Indy e al passaggio alla terza dimensione.

Se siete interessati, trovate qui la prima parte, mentre qui sotto vi lasciamo anche la retrospettiva completa in formato video.

Le ultime Crociate

Occorre, ora aprire una parentesi monumentale per parlare degli anni ‘90, un’epoca di sperimentazione interessante per Indiana Jones che comunque si baserà, quasi sempre, su un unico grande esponente: Indiana Jones e l’ultima Crociata. Dallo splendido film con Harrison Ford e Sean Connery, che interpretava il padre di Indiana Jones nonostante Connery avesse solamente 12 anni in più del volto protagonista, vennero tratte tantissime versioni videoludiche.

In genere il gioco viene sempre identificato col titolo di Indiana Jones and the Last Crusade: The Action Game, pubblicato tra il 1989 e il 1992 su NES, Sega Master System, PC e molto altro ancora. Proprio come suggerisce il titolo, il gioco è un platform a scorrimento laterale abbastanza improntato sull’azione, cosa quasi inedita per i videogiochi di Indy fino a quel momento. C’erano sequenze di combattimento, esplorazioni ed enigmi da risolvere, e sebbene fosse un concept abbastanza semplice e certamente non innovativo, fu il modo giusto per trasmettere l’essenza delle avventure cinematografiche del personaggio con ambientazioni varie, dalla caccia al Santo Graal fino ai combattimenti contro i nazisti, usando un mix di azione e puzzle.

Sì, certo, non era niente di che. I soli quattro livelli presenti cercavano di ricalcare alcune delle sequenze più belle del film, partendo dal giovane Indy che vuole mettere al sicuro la Croce di Coronado e arrivando poi ai giorni nostri a Venezia, dove il protagonista sta cercando la tomba di Sir Richard. Ci si spostava poi al Castello di Brunwald, in Germania, raggiungibile… con una corda? Proprio così: forse per risparmiare tempo o per i limiti dell’epoca, il gioco prevedeva che Indiana passasse da Venezia alle terre teutoniche semplicemente scalando una breve corda in un livello, e magari fosse così semplice ed economico farlo anche nella realtà. Nel complesso, si trattava di un platform action nella media, simpatico ma non troppo ispirato, e caratterizzato da alcuni picchi di difficoltà un po’ troppo importanti. 

Ma questo era solo l’inizio. O meglio, era solo una delle tante ultime crociate di Indy. Non approfondiremo ogni singola versione di The Last Crusade, perché ci sarebbe da realizzare un trattato solo per questo particolare ambito della saga. La versione NES di The Last Crusade probabilmente era la più performante e riuscita, proponendo addirittura cutscene con le sembianze degli attori del film che, per la console a 8-bit di Nintendo, erano quasi un miracolo. Inoltre, ci sono più scelte da fare in termini di livelli per l’ordine in cui giocarli. Un gioco molto breve con solo quattro livelli, con un mix di azione platform e alcuni (molto) leggeri rompicapo da risolvere. Si tratta forse della migliore versione tra i giochi action dedicati all’Ultima Crociata, ma non il migliore. Perché il migliore non fu un gioco action.

Il vero capolavoro ispirato al terzo film della saga non è un platform, non è un gioco che mira a scimmiottare la visione cinematografica. Nah, tutt’altro. Lucasfilm Games stava studiando all’epoca per capire come diventare grande, per raggiungere la popolarità della più celebre divisione cinematografica dell’azienda creata da George Lucas. Il mondo dei videogiochi si stava evolvendo, i giocatori iniziavano a essere interessati a storie più elaborate con colpi di scena capaci di coinvolgerli in prima persona.

Bello Mario, bello Sonic, ma c’era la voglia di qualcosa di più. E così, la divisione videoludica si specializzò nelle avventure punta-e-clicca, uno dei settori che hanno regalato maggiori soddisfazioni a Lucasfilm Games. Basta fare qualche nome per capire la portata di questo fenomeno e quanto lo studio fosse a suo agio in questo ambito: The Secret of Monkey Island, Loom, Days of the Tentacle, quel Grim Fandango che porca miseria rigiocherei allo sfinimento ancora oggi e che siete obbligati a giocare nel caso non l’abbiate mai fatto. E, ovviamente, anche Indiana Jones e l’Ultima Crociata.

Sì, nel 1989 uscì su varie piattaforme, tra cui anche Amiga e Atari, l’avventura grafica ispirata al film di Spielberg, che ne seguiva molto da vicino le vicende prendendosi però anche alcune licenze creative per sorprendere i giocatori. Indiana Jones and the Last Crusade: The Graphic Adventure è semplicemente sublime ancora oggi, ed è innegabile che sia anche grazie a questo esperimento se lo studio, che oggi non esiste più dopo l’acquisizione da parte di Disney nel 2012, abbia raggiunto l’Olimpo nel genere dei punta-e-clicca. La Lucasfilm Games era la regina dei giochi di avventure grafiche, e questo era uno dei loro migliori.

Presentava diversi percorsi narrativi da esplorare, e anche finali diversi. Potevamo seguire il film davvero da vicino, persino usando dialoghi esatti dal film, ma potevamo anche prendere una strada leggermente diversa e provare cose non viste nella pellicola, con tanti enigmi e percorsi facoltativi. Uno dei migliori giochi punta e clicca e anche uno dei migliori titoli di Indy. Fu il gioco più venduto della Lucasfilm al momento della sua uscita, con vendite di oltre 250.000 copie, e critica e pubblico furono entusiasti di questo esperimento che, diamine, funzionò. Ed è da lì che Lucasfilm Games partì per creare quello che probabilmente è il miglior gioco di sempre di Indiana Jones.

Il Destino di Atlantide

I primi anni ‘90 sono un momento cruciale per il franchise di Indiana Jones, per un semplice motivo: Harrison Ford si è rotto le scatole di interpretare il personaggio al cinema, e Spielberg si sta ormai spostando su altro – ora la sua testa è ai dinosauri di Michael Crichton, col quale creerà quel maledetto capolavoro assoluto che è Jurassic Park. Lucasfilm sta quindi cercando nuove vie per mantenere vivo questo importante brand, proponendo ad esempio la già citata serie tv con il giovane Indy interpretato da Sean Patrick Flanery… ma ovviamente anche altri videogiochi. E paradossalmente, è proprio in questo periodo che Indiana Jones dà il meglio di sé in formato di pixel.

Il gioco che più di ogni altro ha definito l’immagine di Indiana Jones nel mondo dei videogiochi è infatti Indiana Jones and the Fate of Atlantis, del 1992, sviluppato da LucasArts per PC. Questo titolo è una delle avventure grafiche più amate di sempre e rappresenta uno dei punti più alti della carriera di LucasArts nel genere. Fate of Atlantis non è solo un gioco basato su un film, ma una storia originale che espande l’universo di Indiana Jones, permettendo ai giocatori di esplorare il mondo alla ricerca di un artefatto misterioso.

La trama coinvolge Indiana in una corsa contro il tempo per fermare i nazisti che cercano di impadronirsi dei poteri di Atlantide, la mitica città perduta che sarebbe stata custode di tecnologie addirittura anacronistiche e pronte a sconvolgere il mondo nel caso fossero state svelate. Serve poco da dire, in merito: questo è in assoluto uno dei più grandi, sublimi, fantastici, splendidamente realizzati giochi di avventura punta e clicca. 

Con tre diversi percorsi da seguire che portano su tre storie attraverso il gioco, Fate of Atlantis si distingueva per una scrittura eccellente, la complessità delle sue scelte narrative e l’innovativa interazione con l’ambiente, facendo scuola nel genere a tal punto che in futuro anche altri giochi e studi di sviluppo ne sfrutteranno la forza. Il gioco ha ricevuto anche un enorme successo di critica, ottenendo punteggi oltre il 9/10 da riviste specializzate, e il pubblico ne fu davvero entusiasta.

Addirittura, ancora oggi molti si chiedono per quale motivo Lucasfilm non abbia mai adattato Fate of Atlantis in un film, magari al posto di quella mezza delusione che è stato Indiana Jones e il Quadrante del Destino nel 2023. Sapete, quel film costato quanto il PIL della Costa d’Avorio e considerato uno dei più grandi flop commerciali della storia. C’è da dire che oggi la stella di Indy è molto più opaca che in passato, e forse neppure la splendida avventura imbastita da Lucasfilm Games negli anni ‘90 sarebbe riuscita a soddisfare i palati dei nostalgici. Meglio lasciarla dov’è, e conservarne il ricordo.

Oh giusto, non possiamo passare oltre prima di parlare di un altro videogioco del franchise pubblicato sempre nel 1992, dal titolo… Indiana Jones and the Fate of Atlantis. No non siamo impazziti; semplicemente, proprio come i giochi tratti da L’Ultima Crociata, di Fate of Atlantis vennero realizzate più versioni. Due, per la precisione: mentre uno era quel capolavoro punta-e-clicca di cui abbiamo appena discusso, scritto da Hal Barwood e Noah Falstein che avevano deciso di creare una storia da zero invece di utilizzare la sceneggiatura di un film mai realizzato; l’altro era l’ormai abituale Action Game, stavolta con visuale isometrica, che prevedeva lunghe camminate mentre Indy sferzava colpi di frusta ai nemici e cercava di sopravvivere. Un titolo di una bruttezza rara, che a differenza del fratello maggiore non è neppure mai stato riproposto, ed è già tempo di passare oltre. 

Concludiamo la storia dei primi anni ‘90 con una rapida carrellata di altri videogiochi più o meno dimenticabili. Anzi, più dimenticabili che altro. Nel 1992 arrivò su NES The Young Indiana Jones Chronicles, action sviluppato da Chris Gary Enterprises, basato sulla serie spin-off ma poco incisivo e soprattutto molto difficile. Il gioco era inteso come un racconto del vecchio Indy delle sue primissime avventure, anche se non si sa per quale motivo le sue fattezze fossero così strane. Insomma, sembrava il colonnello Sanders delle ali di pollo. Nel ‘94 il giovane Indy torna ancora una volta con Instruments of Chaos, altro gioco action stavolta per Sega Genesis ambientato nella prima guerra mondiale nel quale il protagonista inviato in giro per il mondo per impedire agli agenti tedeschi di acquisire tecnologie che rafforzeranno la macchina bellica tedesca. Sì, non aveva molto senso a livello narrativo. 

Sempre nel ‘94 su SNES arriva invece Indiana Jones’ Greatest Adventures, platform a scorrimento orizzontale che riproponeva tutti i film della trilogia con una grafica più accattivante e qualche trovata carina tipo Indy che deve combattere contro lo scheletro del maledettissimo Walter Donovan, anche se la puzza di stantio iniziava a farsi sentire vista l’assenza cronica di spunti inediti.

 

Molto particolare fu invece Indiana Jones and His Desktop Adventures, del 1996, sviluppato da LucasArts. Faceva parte di una categoria di giochi abbastanza particolari, studiati come esperienze tranquille ma potenzialmente carine per il suo approccio che variava da momento a momento. Tutto veniva generato casualmente ogni volta che il titolo veniva avviato, e il gioco stesso si vantava che fossero inclusi “letteralmente miliardi di giochi” contenuti in questo titolo. Ogni avventura durava circa un’ora o giù di lì ed erano pieni di puzzle, personaggi e altro da scoprire. Era pensato per essere giocato in piccole sessioni, o durante una pausa dal lavoro, proprio come altri giochi desktop come Solitario. 

Come Lara Croft (ma peggio)

Come in precedenza, serve un po’ di contesto per parlare di questo periodo storico dei videogiochi. Sebbene nel campo delle avventure punta-e-clicca Indy avesse trovato grandi successi, sembrava che questo genere nato da non troppo tempo fosse già passato di moda alla metà degli anni ‘90. E come contraddire i giocatori dell’epoca. Questo fu il momento della più grande rivoluzione nella storia dei videogiochi fino a quel momento, un’evoluzione radicale e totale nel modo di sviluppare e pensare una produzione. Con Nintendo 64, la prima PlayStation e i PC in generale, era il momento della terza dimensione

Super Mario 64 fu uno dei primi a garantire l’esplosione di questo vero e proprio fenomeno, che portava a un netto cambio di paradigma. Sembrava che non ci fossero più limiti: i giocatori potevano esplorare mondi in lungo e in largo, non conoscevano confini se non quelli stabiliti dal design, e soprattutto immaginavano, sognavano e volevano esperienze tutte nuove. Core Design, ad esempio, sperimentò con le grandi avventure e l’archeologia. La ricetta era semplice: un protagonista iconico, un tesoro da trovare, nemici lungo la strada, e vari enigmi da risolvere. No, non parliamo di Indiana Jones, bensì della celebre Lara Croft, protagonista della saga di Tomb Raider i cui classici sono in questi anni stati recuperati da Aspyr con una serie di remastered importanti per mantenerne viva l’eredità. Ma Indy, a questo punto, non poteva stare a guardare di fronte allo strapotere della prosperosa archeologa senza paura.

Dalla mente di Hal Barwood, che già aveva scritto Fate of Atlantis, e le mani di LucasArts, arriva così nel 1999 Indiana Jones e la Macchina Infernale, la prima avventura del personaggio in 3D.

Riproposto poi negli anni successivi su varie piattaforme, con tanto di conversione 2D per Game Boy Color, il titolo abbandonava la struttura di avventura punta-e-clicca dei precedenti giochi per seguire, appunto, lo stile degli action-adventure. Il gioco è ambientato nel 1947, agli inizi della Guerra fredda. Indiana Jones, dopo le missioni portate a termine durante la Seconda Guerra Mondiale, viene a sapere che i sovietici stanno scavando alla ricerca della mitica Torre di Babele, in uno scavo archeologico in Iraq. Il capo della missione è il dr. Gennadi Volodnikov, un fisico interessato alla scoperta di dimensioni alternative: il suo scopo è quello di rintracciare una leggendaria arma nascosta nella Torre, più potente della bomba atomica, per vincere la Guerra Fredda. 

Siamo molto lontani da un videogioco indimenticabile, ma La Macchina Infernale era sicuramente una buona prova per un team ancora inesperto all’epoca, tanto da riuscire a conquistare, almeno in parte, la critica. Vennero apprezzate la trama e la complessità degli enigmi, molto più presenti che in Tomb Raider, anche se uno dei difetti più ricorrenti riscontrati nella recensione era una certa legnosità e inesperienza nei movimenti e nella gestione degli ambienti. Qualcosa che Tomb Raider, paradossalmente, non aveva, e parliamo appunto di una serie che si ispirava nelle atmosfere e nella forma proprio alle avventure dell’archeologo di Harrison Ford. Ma a LucasArts si poteva perdonare un po’ d’inesperienza – non troppo, però qualcosa sì.

Le cose comunque non andarono tanto meglio con il successivo gioco del franchise, che ne manteneva intatta la formula: Indiana Jones e la Tomba dell’Imperatore seppe ricreare molto bene l’atmosfera dei film, e aveva un gameplay molto ben progettato, anche se LucasArts dovette ancora una volta fare i conti con vari difetti di natura grafica e tecnica che minarono il successo della produzione.

Ambientato nel 1935, il titolo porta Indiana Jones in un’avventura che lo vede impegnato a scoprire i segreti della leggendaria Tomba dell’Imperatore (e forse dal titolo lo avevate già intuito) e della gemma Cuore del Drago, una perla nera dal magico potere sepolta con il primo imperatore della Cina, Qin Shi Huangdi. Trappole mortali, enigmi, soldati della Gestapo che mettono i bastoni tra le ruote, esplorazioni in grandi templi e paesi stranieri per assaporarne gli usi, i costumi e le architetture: una formula apparentemente perfetta per un gioco avventuroso di questo stampo, anche se persistevano i problemi di cui sopra. 

La grafica, seppur funzionale, non era comunque al passo coi tempi, e la varietà di enigmi e situazioni non era adeguata, così come i controlli. Insomma, un buon passatempo ma niente di più, e neppure paragonabile ai primi Tomb Raider, nonostante La Tomba dell’Imperatore fosse arrivato sul mercato ben sette anni dopo. Le cose crollarono poi definitivamente con il terzo gioco 3D del franchise, Indiana Jones e il Bastone dei Re, una produzione contraddistinta dalla totale mediocrità in tutte le sue varie versioni tra console casalinghe e portatili, tra loro molto diverse ma mai incisive – era il 2009, e il mondo degli action adventure cinematografici era stato appena sconvolto dalla grandezza di Uncharted, altra serie di videogiochi che si ispirava sempre a Indy nelle tematiche e nelle atmosfere.

La migliore di queste versioni era quella per Wii, ma per un semplice motivo: includeva Fate of Atlantis, e quello si che era un gioco. E ancora una volta, mentre Indy faticava tantissimo, i suoi emuli festeggiavano. Per quanto divertenti, i giochi tridimensionali di Indy sembravano non essere in grado di rendere giustizia al personaggio, e neppure di ottenere i consensi ricevuti dalle precedenti produzioni videoludiche. Forse serviva uno spunto in più, un’idea nuova. E così, a un certo punto, è arrivata Traveller’s Tales. 

Come era già accaduto per molti altri franchise cinematografici, anche Indiana Jones è stato adattato in un paio di giochi LEGO, il primo dei quali fu LEGO Indiana Jones: Le avventure originali. Il più classico dei classici tie-in a grandezza di mattoncino danese: i tre film della saga classica vennero ricostruiti e trasformati sotto forma di livelli in miniatura con qualche puzzle, azione e il solito carico di umorismo che ha sempre caratterizzato i giochi di Traveller’s Tales, senza il realismo che ricercavano le altre produzioni di Indy negli ultimi anni e sulle quali tutti, o quasi, avevano fallito.

Studiato per accompagnare l’uscita del poco apprezzato film Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo, il titolo venne seguito l’anno dopo, nel 2009, da LEGO Indiana Jones 2: L’avventura continua, che presentava appunto anche l’adattamento del quarto film. Come per la quasi totalità dei giochi LEGO, ci furono diverse versioni per le varie console di riferimento, ognuna delle quali venne comunque generalmente apprezzata. Almeno per quanto riguarda il primo capitolo. Sì perché LEGO Indiana Jones 2, a dire il vero, venne abbastanza bastonato dalla critica per alcune scelte molto bizzarre di Traveller’s Tales, come la mancanza di segreti nei livelli o l’estrema confusione nei mondi hub che facevano da sfondo alle vicende – cosa che lo studio, purtroppo, si porterà dietro anche in altre produzioni. Forse il poco tempo a disposizione minò il successo di questo gioco, ma non lo sapremo mai.

E ora cosa accadrà? Indiana Jones tornerà con un nuovo videogioco nel 2024, a ben 15 anni di distanza dalla sua ultima avventura elettronica (lasciamo perdere Indiana Jones Adventure World, gioco avventuroso per Facebook del 2011…), con Indiana Jones e l’Antico Cerchio di MachineGames. Gli autori del rilancio di Wolfenstein sono chiamati a lavorare su un’IP di grande spessore, frutto della collaborazione tra Bethesda e Disney per portare avanti l’eredità di Indiana Jones, e la speranza è che il buon Indy possa finalmente trovare un po’ di pace, serenità e soprattutto un gioco che possa dare risalto a questa indimenticabile icona del cinema avventuroso. Perché se è vero che Indy ha conquistato i cuori di tutti sul grande schermo, è altrettanto giusto affermare che solo pochissime avventure hanno lasciato il segno tra i videogiochi. E il professor Jones, questo, non se lo merita…

Scritto da
Andrea "Geo" Peroni

Entra a contatto con uno strano oggetto chiamato "videogioco" alla tenera età di 5 anni, e da lì in poi la sua mente sarà focalizzata per sempre sul mondo videoludico. Fan sfegatato della serie Kingdom Hearts e della Marvel Comics, che mi divertono fin da bambino. Cacciatore di Trofei DOP.

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