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Abbiamo fatto male a connetterci

Se Death Stranding ci ha insegnato a restare connessi in tempo di pandemia, oggi forse Hideo Kojima ci sta dicendo l’esatto contrario: abbiamo fatto male a entrare così in contatto. Troppo in contatto.

Probabilmente nessuno avrebbe potuto pensare nel novembre 2019, al momento dell’uscita di Death Stranding, che il primo gioco di Kojima lontano da Konami sarebbe stato profetico. Di lì a poco, il mondo avrebbe conosciuto una pandemia globale di Coronavirus, costringendo varie aree del mondo tra cui soprattutto l’Italia a soccombere a lockdown e saturazione delle strutture ospedaliere. Tradotto: tutti a casa, per il bene di tutti.

Se sia stato eticamente corretto oppure no è ancora oggetto di dibattito (e non ce ne occuperemo, in quanto non è il luogo né il momento), ma certo la pandemia, proprio come il Death Stranding da cui deriva il titolo dell’omonimo gioco, ha contribuito ad allontanare tra loro le persone. A cambiarle. Una sensazione che, e lo so bene, penetra tra le viscere, talvolta lacerando l’animo.

Proprio come Sam Porter Bridges, il protagonista di Death Stranding interpretato da Norman Reedus, anche noi siamo stati costretti a ricostruire i nostri legami, a renderli più saldi. Ad abbattere muri che prima, apparentemente, non c’erano. Ma se per Sam questi muri erano rappresentati dalle vaste lande disabitate dell’America colpita da un evento apocalittico, nel nostro caso l’ostacolo era la solitudine. La sensazione di essere abbandonati al proprio destino, di essere bloccati.

Le UCA di Death Stranding, acronimo di United Cities of America, nascevano proprio con l’intento di riunire persone che avevano scelto di vivere distanti l’uno dall’altro, capaci di fidarsi solo di loro stessi e di quei pochi corrieri che erano pronti a sfidare le CA (creature arenate, manifestazioni cioè di esseri in sospeso su una spiaggia tra la vita e la morte) per aiutare, dimostrandosi coraggiosi a tal punto da restituire fiducia in persone che sembravano aver perso ogni speranza. In fondo, anche noi siamo stati costretti ad affidarci ad altri per superare il caos che aleggiava sopra le nostre teste, come una scure invisibile dalla quale essere spaventati.

Ma dopo tutti questi anni di lenta e importante ripresa, c’è qualcosa di cui non possiamo ritenerci soddisfatti. Forse parlo un po’ troppo personalmente, ma viviamo ormai collegati in ogni singolo istante e luogo, pronti a essere giudicati e a giudicare. Forse siamo arrivati alla situazione diametralmente opposta. Forse abbiamo fatto male a connetterci.

Oggi è ancora troppo presto per sciogliere i dubbi intorno a Death Stranding 2: On the Beach. Kojima ha confezionato un trailer ricchissimo di spunti e simbolismo, così come personaggi inediti (ecco come è nata la collaborazione con Luca Marinelli, confermato nel cast), pericolose sette, oniriche ambientazioni che porteranno Sam verso un futuro sconosciuto. Difficile oggi dire come tutto questo potrà intrecciarsi, ma il padre di Metal Gear sembra dare grande importanza a un concetto che potrebbe ripercuotersi su tutto e tutti: “We should not have connected”. Un’affermazione potentissima se a dirla è colui che ha costruito un videogioco basato sull’unione e la condivisione.

Ma sarebbe stupido, parlando della vita che viviamo tutti i giorni, non ammettere che qualcosa, nella macchina della socialità e nell’era di internet, è andata storta in tutto questo tempo.

Qui non si parla tanto di politica e pensiero. Certo, la situazione nella quale versa oggi un’America che ha deciso di affidarsi al conservazionismo e a garantire solamente per sé, per mano e per bocca del suo presidente, è lo specchio di una società che probabilmente sta regredendo agli istinti primordiali, ricordando ancora una volta quanto la ciclicità sia parte dell’uomo lungo la sua storia. Anche dalle nostre parti si può percepire questa sensazione. Ma al di là del puro e semplice credo politico e ideologico di una persona, che legittimamente ha il diritto di manifestare il proprio io, sembra quasi che la condivisione e la connessione ci abbiano resi più cinici e ostili. Se non anche insopportabili, in certe dinamiche.

Non so quanto (e se) Kojima desideri spingersi verso questa direzione, metaforizzando ancora una volta la realtà come ha già fatto in molte sue opere, ma il sentore di un’alienazione necessaria dall’ormai corrotto mondo del web è tangibile. Corrotto dall’uomo, ovvio. Corrotto dal pensiero di sentirsi sempre al di sopra delle parti, di poter giudicare chiunque, di poter dire la propria di fronte a qualsiasi situazione con la sensazione di essere intoccabili, finendo col farsi nemici su nemici. Anche questo, se ci pensate, è una diretta conseguenza dell’aver voluto connettere l’umanità a qualunque costo: essere collegati significa esporsi, e spesso far emergere, purtroppo, qualcosa di sé che forse senza social non sarebbe mai emerso.

L’ultimo studio di Vox, Osservatorio italiano sui diritti, è lo specchio di una società che sta implodendo sotto i colpi della stessa libertà che tanto ha profetizzato: solo in Italia, nel 2024 più della metà delle interazioni social sono state finalizzate a messaggi d’odio e discriminazione verso etnie e gruppi sociali come ebrei, donne, musulmani, persino persone affette da disabilità. Siamo passati dall’essere distanti al vomitare addosso agli altri frustrazioni e delusioni, nella speranza di apparire non tanto diversi quanto migliori.

Eppure, tutti ormai, adulti e vaccinati, dovremmo essere arrivati alla conclusione che la gente non ha quello che si merita, ma quello che le capita. E nessuno di noi può farci niente. Nè in positivo, né tantomeno in negativo. Un videogioco come Death Stranding ci ha insegnato tanto, ma quel lato più oscuro della natura umana, quello che una società civile dovrebbe reprimere per il bene di tutti, sta raccontando di un mondo che nessuno vuole davvero. Perlomeno, nessuno con un briciolo di cervello, per come la vedo io.

Se questo significa connessione, semplicemente, non voglio far parte di tutto questo. E con Death Stranding 2, a ben pensarci, Kojima potrebbe raccontarci proprio ciò.

Scritto da
Andrea "Geo" Peroni

Entra a contatto con uno strano oggetto chiamato "videogioco" alla tenera età di 5 anni, e da lì in poi la sua mente sarà focalizzata per sempre sul mondo videoludico. Fan sfegatato della serie Kingdom Hearts e della Marvel Comics, che mi divertono fin da bambino. Cacciatore di Trofei DOP.

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