A metà tra remake e sequel del celebre lungometraggio animato del 1941, Dumbo, di Tim Burton, è un film al quale manca un aspetto di non poco conto: l’anima.
Il piccolo elefantino volante, a quasi 80 anni dal suo debutto, torna sul grande schermo sulla scia dei numerosi live action Disney già realizzati e in lavorazione. Solo quest’anno, tanto per ricordarvelo, si aggiungeranno alla lista Aladdin di Guy Ritchie e Il Re Leone di Jon Favreau. I nomi in gioco, a partire dalla regia, sono sempre di spicco quando si parla di Disney, ed è più che lecito aspettarsi prodotti sopra ad un certo standard qualitativo.
Eppure, Dumbo fallisce esattamente là dove un altro recente live action di Topolino aveva fallito. Lo schiaccianoci e i Quattro Regni veniva schiacciato, scusate il gioco di parole, alla fine del 2018 dalla sua trama inconsistente e da personaggi fin troppo sopra le righe, che non facevano altro che snaturare quel minimo di atmosfera che il film riusciva a comunicare, o comunque si sforzava di farlo. Tim Burton, che da anni sembra aver perso il suo inconfondibile e magico tocco, non sembra essere cambiato. Dumbo è un film per famiglie utile al suo scopo, ma rimane prevedibile, ricco di situazioni banali al limite del cliché, a tratti anche rovinato da un montaggio frettoloso.
La trama è davvero semplice, e anzi per scorgerne un sentore occorre attendere la seconda parte del film. Dumbo, un elefantino appena nato e di proprietà del circo dei fratelli Medici (Danny De Vito, che in realtà è solo), si ritrova con una malformazione genetica che gli ha procurato un fenomeno di gigantismo alle orecchie. I due figli del capitano Holt Farrier (Colin Farrel) scoprono che l’animale nasconde un “potere” davvero incredibile, quello cioè di essere in grado di volare grazie alle sue gigantesche orecchie. Per questo, raggiunta la notorietà, Dumbo e l’intero circo diventano oggetto di interesse da parte del miliardario V. A. Vandemere (Michael Keaton), che si fa avanti insieme alla sua musa Colette Marchant (Eva Green) per farne un vero e proprio fenomeno mondiale.
Sceneggiatura che in tutti i 130 minuti non riesce mai a trovare un singolo guizzo per sorprendere, personaggi stereotipati dall’inizio alla fine che non cambiano di una virgola. Felici della presenza e della prova di Danny De Vito, un gigante (non in tutti i sensi) del cinema, ma che per una buona prima parte del film ha rischiato di farsi odiare dopo aver impersonato una linea comica di dubbia utilità e gusto. Impalpabili le due giovani star, Nico Parker e Finley Hobbins, che anzi sono tra le note più dolenti della produzione. Perlomeno Michael Keaton, con il suo sguardo truce, è un villain convincente, e il suo parco divertimenti è un’opera di alto livello tra ambienti e costumi. Ma ce ne dimenticheremo molto presto. Ci dimenticheremo di lui, così come della poco presente Eva Green e di tutti gli altri personaggi, e purtroppo passerà inosservata ai più, temo, il messaggio di amore verso questi splendidi animali che sono gli elefanti (ma in generale verso tutti gli animali, ovviamente) e che stanno troppo velocemente scomparendo dal pianeta.
Ciononostante, Dumbo, colui che dà anche il nome al film, è sempre una gioia per gli occhi (gli effetti speciali, specialmente nella realizzazione dell’animale, sono sempre ottimi) e per il cuore. I momenti più felici e quelli più emotivamente tristi sono tutti un suo merito. Almeno su questo, si vede il tocco di Burton, sempre affezionato a protagonisti inquieti, tristi ma dalla grande forza d’animo. Ma sembra davvero che il regista di Big Fish e Edward Mani di Forbice abbia completamente perso la sua magia, e che si sia limitato a fare il suo compitino senza metterci troppa passione. E da un regista con questo curriculum, io, permettetemelo, mi aspetto molto di più.
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