Lost è la miglior serie tv di tutti i tempi? Per chi scrive, probabilmente sì. Per tanti motivi. Potrei stare qui per molto, molto tempo a elencarne gli infiniti pregi e a spiegare quanto poco siano importanti molti dei difetti che le vengono attribuiti. Ma non è questo il momento per discuterne. Oggi, 22 settembre 2004, è d’obbligo scrollarsi di dosso le pretestuose considerazioni (in alcuni casi) soggettive, e guardare con fermezza al ventesimo anniversario di uno show televisivo che ha fatto la storia della tv.
Ricordo come se fosse ieri quando su Rai 2, dopo una martellante e a tratti insopportabile campagna pubblicitaria che ci ricordava a ogni singolo spot di ogni singola ora di ogni singolo giorno che presto Lost sarebbe entrato a far parte delle nostre vite, vidi il primo episodio. Unico pensiero: “porca miseria, che bomba!”. Lo schianto, i superstiti che agonizzanti cercavano riparo dalla carcassa del volo 815 della Oceanic, Jack eretto da subito volenteroso eroe della situazione pronto a tutto pur di salvare delle vite. Tutto in perfetta linea con il suo personaggio, un medico, che si trovava su questo volo solo per una serie di coincidenze. Come tutti, del resto. Eppure, ancora non lo sapevano loro e non lo sapevamo noi.
Dal 2004 al 2010, Lost è stata una componente onnipresente della cultura pop e nella vita di ognuno, per un motivo o per l’altro. Anche cercando di starle lontani, era la serie a trovare i fuggitivi. Era la cosa che volevi guardare, la cosa di cui eri stufo di sentir parlare, la cosa a cui hai rinunciato quando sono arrivati gli Altri, i viaggi nel tempo o le timeline alternative o non hai capito. Per altri invece, per molti a dire la verità, è stata una speranza. Una costante. Un’ancora di beltà in una tv che stava muovendo i primi passi verso un’evoluzione straordinaria, frutto di quel rinascimento di ABC che anche e soprattutto grazie a Lost riportò il network di Disney (sì, Lost è una serie Disney, incredibile eh?) al tavolo dei grandi.
Un progetto ideato da JJ Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, che non si sarebbe esaurito come una corsa contro il tempo, ma avrebbe invece imbastito sapientemente e faticosamente una grandiosa narrazione, per un quadro d’insieme che sarebbe divenuto chiaro solo molti, molti anni dopo il debutto, ma non per questo impedendo agli spettatori di iniziare a unire i puntini del grande mosaico.
Guardare un episodio qualsiasi portava a giorni di mistero stuzzicante, suspense ed emotività, qualcosa che la tv, oggi, non riesce più a dare. Come dimenticare l’infinita attesa tra una stagione e l’altra, per sapere come sarebbe andata avanti la storia. Perché poi ogni pezzo della storia di Lost era fondamentale. Si arrivava a un punto, intorno alla terza stagione, in cui perdere un episodio significava smarrire anche la strada. E questo, in fondo, era il bello. Scoprire cosa si celava sotto quella dannata botola della prima stagione era il mistero più incredibile della televisione dai tempi di Laura Palmer a Twin Peaks. Scoprire che Desmond e Jack si conoscevano prima dell’isola mandava fuori di testa. Assistere alla materializzazione dei numeri, che davvero avevano un significato, faceva rivedere tutto sotto un’altra luce.
Ci sono tanti momenti, troppi forse, passati alla storia della tv per la loro iconicità. Basti pensare al filmato registrato del progetto Dharma, una misteriosa struttura di ricerca che intendeva sfruttare l’energia dell’isola. O Charlie e il suo messaggio “Not Penny’s Boat”, poco prima di sacrificarsi per i suoi compagni. O ancora, il celebre e clamoroso plot twist della terza stagione, nel quale non solo si scopre che quelli che avevamo visto non erano flashback ma flashforward, ma si assiste anche all’indimenticabile dialogo tra Jack e Kate nel quale il personaggio di Matthew Fox è più determinato che mai a tornare sull’isola, dopo aver fatto di tutto per abbandonarla.
Non basta? E allora come dimenticare l’episodio 4×05, dal titolo “La costante”. Bello, bellissimo, magnifico. Desmond, sbalzato nello spazio e nel tempo, costretto ad aggrapparsi alla sola costante della sua vita, l’amore per Penny, il cui legame supera ogni ostacolo, fisico e non. Un’interpretazione magistrale da parte di Henry Ian Cusick, partito come semplice presenza e divenuto invece una delle costanti, guarda un po’, migliori dello show. Forse uno dei momenti più alti nella storia della televisione.
Riguardandolo oggi, alcuni difetti sono più importanti di altri. La seconda stagione è ad esempio solida ma anche sperimentale – forse troppo. La terza stagione inizia a inserire troppe linee narrative che saranno lasciate in sospeso perché poco importanti, o risolte nel giro di poco tempo. Basti pensare ai due nuovi sopravvissuti, Nikki e Paulo, con Abrams e Lindelof che volevano esplorare la possibilità di inserire nella narrazione anche altri superstiti del volo 815 per dare più storie e più contorno, senza però risultare efficace. La narrazione corale di Lost era già abbastanza ampia con i primi sopravvissuti, il secondo gruppo della coda dell’aereo, gli Altri, ciò che restava di Dharma e così via. La quarta stagione venne poi funestata dallo sciopero degli sceneggiatori, che cambiò i piani iniziali.
Eppure, con Lost è davvero difficile concentrarsi sugli aspetti negativi. Persino l’ultima e controversa stagione, quando Jacob e l’Uomo in Nero scoprono le loro carte, è un microcosmo delle sue identità contrastanti. Voleva essere un ritratto poetico e ampio della moralità e della condizione umana, ma lasciando spazio alle questioni umane, apparentemente insignificanti per il grande significato dell’isola. Questioni che, in realtà, sono proprio quelle che hanno portato tutto questo a una grandiosa conclusione. Forse la parte più dura e strana della sesta stagione è elaborare il fatto che tutta la gioia e la sofferenza sopportate da questi personaggi sono servite a portare la maggior parte di loro alla fine, in quella chiesa che ancora oggi genera discussioni e dibattiti.
È impressionante notare quanto questi personaggi significano l’uno per l’altro e come il loro tempo condiviso sull’isola li abbia legati indissolubilmente dal primo all’ultimo momento. Avevano tutti bisogno l’uno dell’altro, eppure non lo sapevano. Non si conoscevano neppure prima dell’isola, e questo porta a un sapiente lavoro di costruzione delle loro emozioni e rapporti che poche altre serie possono vantare. Forse è per questo che amo anche un’altra grandissima serie nata dalla mente di Abrams, Fringe, che proprio un anno fa ha spento la sua quindicesima candelina. Probabilmente neanche mi sono accorto di tutti questi dettagli alla prima visione di Lost. Non potevo capire tutte le sue implicazioni, il significato di persone capaci di cambiare la vita e il proprio destino, o quello di estranei che entrano a far parte della propria routine. Venti anni dopo, è la realtà che vivo.
Cosa penso quando ricordo Lost, a 20 anni dal suo debutto? Penso a un’oasi di intrattenimento, le piacevoli discussioni con uno dei miei più cari amici che la mattina, sull’autobus, andando a scuola, mi aggiornata sugli episodi appena andati in onda – sapete, aveva Sky, quindi aveva circa un anno di vantaggio su me comune mortale che seguivo Rai 2. Penso ai personaggi che sono entrati nella mia testa e non ci usciranno mai, a quei nomi che non scorderò mai, a quel mondo di storie e follia che non dimenticherò mai. Penso all’occhio di Jack che si apre all’improvviso e a quelle canne di bambù che si allungavano verso il cielo, la prima e l’ultima cosa che l’amato dottore ha visto sull’isola, prima di lasciarsi andare. Un ultimo saluto al pubblico, per ringraziare di un viaggio che ha cambiato per sempre la tv.
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