Se siete vecchi lettori e appassionati di Shang-Chi, il maestro del Kung Fu dei fumetti Marvel degli anni ’70, questo non è il film che fa per voi. Se siete in cerca di redenzione, da parte del MCU, per il plot twist del Mandarino di Iron Man 3, e sperate di vedere in azione il leggendario villain sul grande schermo, questo non è il film che fa per voi. Se bramate la rappresentazione 1:1 dei portentosi Dieci Anelli, magici anelli (ma va?) arrivati sulla Terra migliaia di anni or sono, questo non è il film che fa per voi. Detto questo, iniziamo a parlare di Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli.
Dopo la prova opaca di Black Widow, pellicola che ha subito oltremodo la pandemia (non ci riferiamo soltanto alla causa intentata da Scarlett Johansson alla Disney) tra una storia che fatica a essere raccontata e un personaggio che ha già dato tutto, il nuovo film dei Marvel Studios ne è l’esatto contrario, e rappresenta una sorta di vero inizio, dopo che le serie TV hanno già sparato diverse cartucce importanti, per la Fase 4. Forse non l’inizio sperato, ma le potenzialità ci sono.
In tanti, come anticipavamo all’inizio di questa recensione, potrebbero avere da ridire sullo Shang-Chi che sta per arrivare sul grande schermo, ma la storia ci insegna, e quella dei fumetti in particolare, che andare a toccare certi temi e certe rappresentazioni culturali non è una grande idea nel 2021. L’idea di fondo di Destin Daniel Cretton, al comando di una troupe quasi interamente composta da membri asiatici per dar forma a un film che è nei desideri di Kevin Feige da molti anni, è stata quindi quella di ripartire da capo, azzerare la conoscenza che i lettori Marvel hanno di Shang-Chi e proporre una storia di origini che ha ben poco a che fare con il personaggio, ma proiettata in direzione di quel multiculturalismo che, nel bene e nel male, fa parte del nostro mondo di oggi, anche al cinema.
È così che Shang-Chi, trasferitosi da giovane a San Francisco per sfuggire all’organizzazione dei Dieci Anelli del padre (Tony Leung), si ritrova al centro di un neanche troppo contorto piano proprio del padre per ritrovare lui e la sorella scomparsi da tempo, il tutto per cercare un modo per recuperare l’unica donna che si sia mai contrapposta tra lui e la conquista totale del mondo: la madre di Shang-Chi. Quello che troviamo per le strade della città americana non è però uno sprovveduto, un semplice giovane che finisce in mezzo a qualcosa di più grosso di lui, bensì un guerriero addestrato alle arti marziali che ben sa di cosa può essere capace il padre, e che perciò è costretto a ripercorrere il traumatico sentiero della sua infanzia per cercare di porre rimedio.
A metà tra una storia di origini e di rivalsa, con continui ma sapienti flashback sulla giovinezza di Shang-Chi e sul suo rapporto con le due figure genitoriali, capaci in più occasioni di toccare le giuste corde delle emozioni, il film continua su questa strada lungo tutto l’arco della sua durata – un po’ troppo eccessiva, a dire il vero, con un secondo atto abbastanza tirato per le lunghe e tanti paroloni che cercano di approfondire il rapporto tra Shang e Wenwu, cosa di cui, sinceramente, non se ne sentiva il bisogno. Le scene di combattimento, fortunatamente, nel pieno spirito dei più leggendari film orientali dedicati alle arti marziali, riescono a ridare mordente al film e a rubare la scena, questo prima che avvenga la vera chiave di volta che porta i protagonisti, compresa la solare e spaesata Katy (Awkwafina), in un luogo dove la cultura cinese, la storia e la magia si fondono insieme in un tutt’uno visivamente spettacolare.
L’intero terzo atto del film, il più corposo e ricco di azione, è anche quello sul quale il reparto effetti speciali ha lavorato di più, e il risultato è fenomenale, col risultato che proprio nelle ultime battute Shang-Chi rischia di esagerare troppo vista l’evidente disparità tra ciò che avviene prima e ciò che aspetta il gruppo nelle fasi finali. Non dimentichiamoci però che non parliamo soltanto di un film Marvel, ma anche di un action comedy movie che fa anche di queste esagerazioni il suo modo di esistere e raccontare, e l’appartenenza al MCU, che da alcuni anni a oggi si sta facendo sempre più folle (il Multiverso della follia vi dice nulla?), non fa altro che aiutare questo spirito di rappresentazione.
È anche vero che, per questioni puramente culturali, l’impatto che un film come Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli avrà su alcune persone sarà ben diverso da quello che avrà su altre. Basti pensare a ciò che nel 2018 è accaduto con Black Panther, con il compianto Chadwick Boseman, capace di diventare un vero e proprio fenomeno di culto nella comunità afroamericana, spingendolo addirittura verso i Premi Oscar più per ciò che ha rappresentato, che per ciò che è stato davvero. La scelta della Marvel per ricostruire Shang-Chi e il “Mandarino”, che Mandarino non è, potrebbe essere quindi vincente, ma non ci sentiamo nella posizione per poterlo dire. Quello che possiamo affermare è che, nonostante l’atipico Wenwu e la scatenante causa amorosa che ci ricorda, come sempre, che un cuore infranto può fare più danni di un incrociatore dell’Impero Galattico, e sappiamo quanto gli incrociatori siano forti, la traboccante cultura orientale che permea nei suoni (bellissima la colonna sonora, riesce a restare impressa), nelle luci e nei colori (e nei pugni) del film è davvero un toccasana per questo universo narrativo, che aveva proprio bisogno di spingersi in qualcosa di ancora “ignoto” a questi lidi.
Con qualche minuto e cliché di troppo, Shang-Chi arriva comunque a una tranquilla risoluzione, che apre le porte del MCU al nuovo supereroe – vedere per credere, e le due scene post-crediti sono da vedere. Con buona pace però degli ultra-puristi dei fumetti, che usciranno dalla sala sconsolati e delusi per come la Marvel, ancora una volta, ha preso il materiale originale e lo ha stravolto quasi completamente.
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