Di devastanti epidemie che colpiscono la razza umana dovremmo averne abbastanza, ma finché scoppiano nel mondo fantastico dei film e delle serie tv non c’è da preoccuparsi. Nonostante il 2020 non sia stato un anno particolarmente rilassante da questo punto di vista, il genere thriller/horror apocalittico continua ad essere molto apprezzato nel mondo dell’intrattenimento, tanto da aver spinto Netflix ad ospitare sulla sua piattaforma Sweet Home, l’adattamento live action dell’omonimo popolarissimo webtoon coreano. Per chi non lo sapesse, i webtoon non sono altro che fumetti gratuiti molto seguiti in Corea e all’estero, pensati appositamente per essere letti da cellulare.
Sweet Home si affianca quindi ad un’altra opera del medesimo genere uscita di recente su Netflix, Alice in Borderland, la serie giapponese ispirata ad Hunger Games. Se vi è piaciuta una delle due, probabilmente rimarrete piacevolmente colpiti anche dall’altra.
Non indugiamo oltre e scopriamo insieme di cosa tratta Sweet Home nella nostra recensione.
Casa dolce casa
Il fumetto ad opera di Kim Carnby e Hwang Young-chan è alla base dell’adattamento Netflix di Sweet Home, che rimane decisamente fedele all’originale e ne ripresenta le atmosfere orrorifiche e fantasy, dando vita a una avventura dai ritmi serrati e dalle tinte gore. Diretta da Lee Eung-bok, la serie in dieci episodi racconta lo scoppio in Corea di una misteriosa epidemia della quale non si conosce l’origine.
Si seguono i passi di Cha Hyun-soo (Song Kang), un giovane dal passato traumatico. In seguito alla morte dei suoi genitori e della sorella in un incidente, il ragazzo sta diventando un hikkikomori: vive recluso in un appartamento fatiscente, in un palazzone di periferia. Deciso a suicidarsi e a liberarsi così definitivamente dei suoi fantasmi, si trova invece improvvisamente minacciato dallo scoppio dell’epidemia: nota infatti che i suoi vicini di casa iniziano ad assumere comportamenti strani, trasformandosi in mostruose bestie assetate di sangue. I primi sintomi si manifestano con una copiosa perdita di sangue dal naso, per poi peggiorare di ora in ora fino a quando il soggetto colpito non si trasforma in una creatura infernale.
Non aspettatevi però di vedere i soliti zombie barcollanti: queste mutazioni sono ben più complesse e variano da persona a persona. Ogni infetto si trasforma in un mostro differente, che varia per proporzioni, aspetto, forza e poteri. Questo elemento dà alla serie un potenziale pressoché infinito: l’aspettatore è sempre in attesa di scoprire quale nuova minaccia si presenterà al gruppo di malcapitati protagonisti.
Pur essendo Hyun-soo il perno attorno al quale ruotano le vicende, il ragazzo è attorniato fin da subito da una nutritissima schiera di co-protagonisti. Il giovane è costretto ad uscire dal suo guscio di dolore per salvarsi la pelle.
L’intera serie è ambientata nel palazzo di periferia nel quale si barricano i personaggi per sfuggire agli zombie. Hyun-soo si vede costretto a rischiare la vita per salvare quella di due bambini vicini di casa: questo primo atto di coraggio dà il via alla crescita del personaggio, e lo porta a incontrarsi con gli altri superstiti. Rintanati nella palazzina ci sono la musicista Yoon Ji-soo (Park Kyu-young), la ragazza vigile del fuoco Seo Yi-kyeong (Lee Si-young), l’aspirante ballerina Lee Eun-yoo (Go Min-si) e il suo brillante fratello Lee Eun-Hyuk (Lee do-Hyun), il misterioso Pyeon Sang-Wook (Lee Jin-Wook) e molti altri. Ogni personaggio ha un suo spazio ben delineato all’interno della narrazione, così da apparire realistico e ben riconoscibile agli occhi dello spettatore.
L’allegra (si fa per dire) combriccola è quindi costretta ad unire le forze per sopravvivere, nonostante la difficile convivenza in uno spazio ristretto dove acqua e cibo scarseggiano.
Come in ogni opera degna di questo genere, i personaggi scopriranno ben presto che la minaccia non arriva solo dai mostri, ma anche dalle nefandezze dell’animo umano.
Fuggite, sciocchi!
Pensate ai personaggi ricorrenti degli zombie movie: c’è il tizio armato di mazza chiodata, quello con la katana, la ragazza incinta, il bambino (o i bambini, in questo caso), il codardo che pensa solo a salvarsi a discapito del gruppo. Prima o poi probabilmente arriverà qualcuno con un lanciafiamme (l’arma definitiva, eh gamers?) e l’intelligentone pronto a salvare tutti grazie all’astuzia e al senso di sacrificio. Ecco, Sweet Home ha in sé tutti questi steriotipi tipici del genere, non ne manca nemmeno uno. Nonostante questo riesce a intrattenere grazie all’ottima performance attoriale di tutto il cast e a delle sequenze d’azione intriganti, nonostante risultino spesso un po’ confusionarie.
D’altra parte il cinema coreano aveva già dimostrato in passato di sapersi orientare bene per quanto riguarda l’horror e il genere apocalittico, pensiamo a capolavori come Two Sisters e Train to Busan.
Anche Lee Eung-bok si muove bene in questo genere, nonostante il ritmo un po’ altalenante della narrazione e qualche sequenza poco chiara, a causa di un montaggio e una regia non eccelsi (viene voglia di tornare indietro per esaminare meglio cosa diamine è successo).
L’elemento sicuramente più originale di Sweet Home è la modalità di “trasmissione” dell’epidemia. La malattia non sembra essere contagiosa (i morsi fanno solo male, ma non infettano), semplicemente accade: da un momento all’altro qualsiasi umano può iniziare il processo di trasformazione e mutare gradualmente fino a perdere il controllo di sé. Questa costante incertezza porta lo spettatore a guardare tutti con sospetto, per cercare di intravedere nei comportamenti di ognuno i primi sintomi della malattia. Non si sa se questo terribile morbo sia stato indotto, se sia di origine naturale o se sia più accomunabile ad una maledizione ultraterrena, ma una cosa è certa: le pulsioni più oscure dell’animo umano, le paure, i pensieri negativi e la cattiveria insita in ognuno sembrano scatenare il processo di trasformazione. È proprio dalle singole personalità che deriva infatti la forma finale dello zombie, che sembra quasi voler mostrare al mondo la vera natura della persona in questione, con tutte le sue brutture e le sue ossessioni.
Non solo gore e malvagità
Sweet Home mette da subito in chiaro che si tratta di una serie non adatta a tutti a causa dell’elevatissimo tasso di scene gore e splatter che la caratterizzano: tra arti mozzati, morti crudeli, mostri di ogni sorta e sangue a secchiate, consigliamo la visione agli appassionati del genere e non ai fragili di stomaco. Nonostante questo, la serie non presenta momenti di puro terrore: non ci sono jumpscares o situazioni tipicamente horror, ma il vero punto forte sono le sequenze d’azione, gli scontri brutali tra uomini e mostri. Spesso il finale di queste scene è imprevisto e riesce a stupire per la sua crudezza e per delle soluzioni alquanto brillanti, che si alternano a momenti di dialogo e discussione più statici che servono per approfondire la psicologia dei personaggi e le loro esperienze passate.
In questi momenti meno concitati però Sweet Home preme un po’ troppo sulla leva del melodrammatico, cercando a tutti i costi di impietosire o commuovere lo spettatore. Le perdite che più fanno soffrire sono quelle che avvengono di fretta, che non lasciano il tempo di piangere sul cadavere del proprio compagno. In una serie così splatter e d’azione, non era necessario insistere così tanto su questo aspetto, che risulta invece noioso e decisamente meno coinvolgente.
Il senso di disgusto e paura è spesso smorzato da effetti speciali non sempre all’altezza: la serie è molto altalenante in questo, presenta infatti soluzioni visive alquanto interessanti che però risultano una mosca bianca in mezzo a tantissimi altri elementi decisamente finti e poco riusciti. Tra le note di demerito bisogna menzionare anche la scelta del sottofondo musicale: le canzoni che fanno da sfondo ad alcune scene clou si ripetono (“Warriors” degli Imagine Dragons viene decisamente abusata) e risultano fuori luogo, oltre che fastidiose.
Nonostante qualche soluzione un po’ forzata, l’intreccio risulta comunque compatto e interessante: i personaggi sono tutti da scoprire, anche se alla fine di questa prima stagione ci si ritrova decisamente sospesi tra mille domande senza risposta, nell’attesa spasmodica di un seguito che dia senso a questi primi dieci episodi.
Fiumi di sangue, mostri quasi invulnerabili, pulsioni umane e rapporti che si creano, si intrecciano, si spezzano: tutto questo è Sweet Home, la nuova serie Netflix basata sull’omonimo webtoon coreano ad opera di Kim Carnby e Hwang Young-chan. Tra misteriose mutazioni e minacce sempre nuove, il nutrito gruppo di protagonisti si ritrova a dover sopravvivere segregato in una palazzina di periferia, dovendosi difendere sia dai mostri che già popolano l’esterno sia da quelli che si trasformano all’interno del palazzo fatiscente. I personaggi crescono senza mai riuscire ad abbandonare del tutto i fantasmi del loro passato, risultando sì stereotipati ma comunque ben caratterizzati e tutti da scoprire. Se non fosse per gli effetti speciali non sempre all’altezza e per un finale che lascia più domande che risposte, Sweet Home sarebbe un ottimo rappresentante del suo genere. Le scene d’azione e la crudeltà con cui prosegue l’intreccio sono sicuramente encomiabili, anche se intervallate da momenti decisamente troppo melodrammatici per una serie splatter. Nonostante questi difetti, Sweet Home risulta comunque molto godibile dall’inizio alla fine: fan di The Walking Dead armatevi, potreste trovare pane per i vostri denti.
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