Indiana Jones. Ah, c’è stato un momento nella storia del cinema in cui questo nome era il sinonimo stesso di avventura, amori, nazisti da prendere a cazzotti e inestimabili tesori da scovare in tutto il mondo decifrando mappe e prendendo a pugni chiunque fosse mosso da loschi intenti. Steven Spielberg, George Lucas e Harrison Ford, insieme alle musiche del solito e immenso John Williams che ha accompagnato l’infanzia o la giovinezza di molti di noi, riuscirono a creare un personaggio perfetto, tanto che ancora oggi, lontanissimi da quei magici anni ‘80 del cinema, Indiana Jones è ancora considerato una grande icona.
Oddio, non che le sue più recenti apparizioni siano state eccellenti, anzi. Nel 2008 Spielberg e Ford testarono una curiosa storia per il rilancio del franchise con Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo, un film tutto sommato buono ma lontanissimo dagli standard ai quali Indy aveva sempre abituato il suo pubblico. E poi, Shia LaBeouf. Mamma mia Shia LaBeouf, quanto sembrava del tutto inadatto l’allora promessa di Hollywood a sperare un giorno di rimpiazzare Ford come nuovo Indiana Jones. E infatti, niente rimpiazzo.
Poi alcuni anni fa è arrivata la Disney. Nel 2012 la compagnia di Burbank ha acquisito Lucasfilm, lasciando il povero George Lucas tutto solo con appena 4 miliardi di dollari, spicciolo più, spicciolo meno, e facendone il più grande azionista individuale della Disney ancora oggi. No, tanto per dire. Sapete, quando si parla di Star Wars ultimamente e della sua qualità estremamente altalenante si dice sempre che “Lucas non lo avrebbe permesso!”, e invece a quanto pare lo permette ancora oggi. Però si parlava di Indiana Jones, altra sua creatura. E infatti pure Indiana Jones e il Quadrante del Destino, quinto e ultimo film del franchise diretto stavolta da James Mangold e distribuito nel 2023 al cinema è… esattamente come il suo predecessore: piatto, insipido, con un Harrison Ford oggettivamente troppo vecchio per fare l’avventuriero credibile, e tanti problemi.
Un flop commerciale gigantesco per la Disney, che anche per colpa della pandemia ha speso una cifra folle per realizzare questo film. Tanto folle da chiudere del tutto l’idea di realizzare una serie tv per Disney+, che da un lato fa dispiacere per le potenzialità, dall’altro ci fa dire GRAZIE per aver fermato un altro probabilissimo disastro. Non ce ne voglia Phoebe Waller-Bridge, ma queste operazioni legacy/nostalgia negli ultimi anni ci hanno insegnato che no, meglio lasciar stare.
Eppure, Indy continua a mantenere il suo fascino, e lo dimostra il prossimo grande progetto di MachineGames, autori di Wolfenstein, dal titolo Indiana Jones e l’Antico Cerchio. Un action adventure a base di enigmi e viaggi in tutto il mondo che promette di far vivere ai fan del personaggio un’avventura fantastica, qualcosa che chi è nato e cresciuto col mito di Indiana Jones davanti agli occhi ha sempre sognato. Perché è vero che di videogiochi con Indy ce ne sono stati davvero tanti in passato, ma questa è la prima volta che ci troviamo di fronte a un progetto così ambizioso e di vasta portata. Come dite? Non sapete di quali altri videogiochi parliamo? Per fortuna ci siamo qui noi…
I predatori di Atari
Girano alcune leggende secondo cui quello tratto da Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta, pubblicato per Atari 2600, sia stato il primo videogioco tie-in della storia. Per inciso, un tie-in è un prodotto, in questo caso videoludico, che si occupa di accompagnare l’uscita di un film o simili e sfruttarne il successo per trovare ricavi anche in altri lidi, o banalmente possono rientrare anche nel concetto di giochi su licenza. Sono celebri i tie-in di Disney degli anni ‘80 e 2000, quando tra i platform e giochi avventurosi di Cip e Ciop, DuckTales, Aladdin, PK ed Hercules ha fatto storia in fatto di adattamenti per console e PC. Come dimenticare poi altri clamorosi tie-in come quello di E.T., che quasi mandò in bancarotta Atari. Ma sì dai, lo ricordate per forza. Era quel gioco che si vociferava fosse andato talmente male da spingere il publisher a sotterrare le tantissime copie invendute nel deserto. La cosa divertente è che qualche anno fa si è scoperto che era tutto vero, una storia pazzesca…
Comunque, no, Raiders of the Lost Ark non è stato il primo tie-in, perché già quattro anni prima, nel 1979, Atari aveva usato il prode Clark Kent per il suo videogioco di Superman, che accompagnò l’uscita dell’omonimo film con Christopher Reeve diretto da Richard Donner. Arrivando in realtà un anno dopo il cinecomic, ma va bene lo stesso. Uno shoot ‘em up davvero basilare, nel quale il prode protettore di Metropolis doveva sconfiggere la sua nemesi Lex Luthor. Il titolo venne apprezzato all’epoca, e non fatevi ingannare dall’estetica: oggi, un gioco come questo verrebbe etichettato come un indie di bassissima lega, un gioco dal quale stare alla larga. Appunto, però, si parla ancora di un’industria primitiva, che stava muovendo i suoi primi passi. Mario non esisteva ancora, per intenderci. Nintendo stessa non sapeva ancora cosa fare. Quel che è importante, però, è che grazie a Superman i tie-in vennero sdoganati.
Comunque, si arriva al 1981. Harrison Ford è il più famoso attore del momento, e sul grande schermo torna in un ruolo destinato a diventare iconico dopo quello di Han Solo in Star Wars. Ora però ha i piedi per terra, è un professore di archeologia all’università, e a tempo perso si dedica ad avventure incredibili per cercare manufatti di storico e intrinseco valore cercando di arrivare prima dei dannati nazisti. Indiana Jones, creato da George Lucas e Steven Spielberg, conquistò tutti. Insieme a James Bond, era l’uomo che tutti volevano essere, o che tutte le donne volevano avere.
Col suo mitico cappello e l’immancabile frusta, era in grado di vivere avventure senza tempo, visitando località esotiche e sconfiggendo nemici di ogni tipo, persino la potenza della natura, fuggendo da massi assassini rotolanti che poi anche Crash Bandicoot di Naughty Dog sarà costretto a schivare in futuro. Appunto, le citazioni di Indiana Jones in ambito videoludico sono numerosissime. Addirittura grandi icone di questo settore sono nate proprio ispirandosi al famoso archeologo, come Lara Croft di Tomb Raider o Nathan Drake di Uncharted. Ma questo non solo perché il personaggio ebbe una forte influenza in sala, bensì anche in formato di pixel.
L’anno dopo l’arrivo in sala, siamo quindi nel 1982, arriva infatti su Atari 2600 quello che non solo è considerato il primo tie-in di grande qualità, ma anche uno dei migliori videogiochi per la console in questione: Raiders of the Lost Ark, traducibile in italiano come I predatori dell’Arca perduta. Sì, l’adattamento videoludico del lungometraggio con Ford, stavolta ridotto a un ammasso di pochissimi (e grandi) pixel ma capace di mantenere il proprio appeal, di comunicare quel senso di avventura che all’epoca richiedeva solo pochi colori e quadratoni giganti a schermo. Mica come ora che facciamo le pulci per le seghettature delle foglie nelle foreste, o quando Infinity Ward decise di inserire due Soli su Call of Duty: Ghosts. Insomma, il Sole è bello, perché allora due non dovrebbero esserlo di più?
Comunque, Raiders fu un videogioco davvero rivoluzionario all’epoca, perché i titoli di allora si basavano solo sull’ottenere un punteggio elevato. Raiders of the Lost Ark, invece, era diverso. In Raiders of the Lost Ark c’era davvero un finale da raggiungere, c’era uno scopo finale per tutto quello che dovevamo fare nel gioco. Indy non si limitava a evitare ostacoli e nemici, ma aveva realmente uno scopo.
Il titolo seguiva infatti, anche se molto liberamente, la trama del film e faceva giocare ovviamente nei panni di Indiana Jones mentre sta cercando di trovare l’Arca dell’Alleanza, un potentissimo manufatto ritenuto la reliquia più sacra degli Israeliti. Secondo la Bibbia, venne costruita per contenere le tavole dei Comandamenti, donati da Dio a Mosè. Secondo altre leggende, al suo interno ci sono invece materiali radioattivi, e l’Arca era una sorta di pila atomica che fungeva anche da cannone nucleare per spazzare via i nemici. Sì insomma, Roberto Giacobbo ci avrà fatto ormai mille puntate su questa roba, ormai anche noi iniziamo a pensare che ci sia del vero.
Ma bando alle ciance, torniamo al grande debutto di Indy in forma di pixel. Raiders of the Lost Ark era divertente, ricco di enigmi da risolvere e appassionante. Il gioco richiedeva al giocatore di utilizzare due controller diversi: il controller 1 serviva a selezionare un oggetto o a lasciarlo andare, mentre con il controller 2 si muoveva Indy e si utilizzava l’oggetto. Questa scelta venne ideata da Howard Scott Warshaw, storico game designer di Atari degli anni ‘80, si offrì volontario per lavorare al tie-in di Indiana Jones, col desiderio di realizzare non solo un semplice adattamento, cosa che comunque per l’epoca era qualcosa di ancora nuovissimo, ma anche anche spingere sulla creatività partendo da un già consolidato modello arcade. Non mancavano le novità insomma nel progetto di Warshaw, come ad esempio il citato utilizzo di due controller. Il progettista voleva infatti aggirare le limitazioni di Adventure, altro suo gioco del 1980, e introdusse appunto il secondo controller per una miglior gestione dell’inventario.
Raiders of the Lost Ark fu insomma un precursore dei videogiochi avventurosi, del resto non è un caso che venga spesso affiancato allo storico Pitfall, altro grande esponenti di questo genere negli anni ‘80. Questa fu un’altra intuizione di Warshaw, quella cioè di voler enfatizzare notevolmente sugli ambienti e le ambientazioni, che in un racconto di avventura sono sempre quelle che portano la mente del lettore o dello spettatore in luoghi esotici e lontani dalla propria monotonia. Per farlo, però, dovette anche scendere a compromessi. Warshaw fu ad esempio costretto a eliminare moltissime parti ed elementi del film, ovviamente per limiti tecnici. Il gioco si ridusse così alla sola ambientazione del Cairo, nel quale l’Arca dell’Alleanza, il grande tesoro da trovare, venne posizionata al centro della zona, circondata da enigmi e nemici che variavano nel tempo. Sì, Warshaw introdusse anche un timer che faceva cambiare gli elementi del gioco. Un’altra intuizione davvero brillante.
Bastò una cartuccia ROM da 8 kB per dare forma a Raiders of the Lost Ark, con le animazioni di Jerome Domurant e la direzione artistica di James Kelly. Deve essere stato un bel momento, perché persino Warshaw ha dichiarato che amava indossare il cappello e portare con sé una frusta di cuoio durante lo sviluppo del gioco. Peccato solo che il reparto marketing di Atari abbia lasciato qualche ruggine, con Warshaw arrabbiato perché nel manuale del gioco erano state inserite alcune informazioni che sarebbe invece stato bello far scoprire all’utente finale. Ma intanto, a prescindere dalle discussioni, Indy era ufficialmente sbarcato anche nel mondo dei videogiochi.
Nuove avventure
Nel periodo successivo, accade qualcosa di prima impensabile: Indiana Jones non più solo come personaggio di un film, ma anche di videogiochi. Nel senso che anche i videogiochi potevano raccontare storie di Indy. Storie che magari al cinema non si erano mai viste, o non erano neppure mai state abbozzate o citate. Indiana era un archeologo a tutto tondo, studiava manufatti in ogni angolo del globo. Perché limitarlo alle poche avventure che Spielberg gli farà vivere sul grande schermo?
Nel 1985 esce Indiana Jones and the Temple of Doom, ovvio adattamento del film Indiana Jones e il Tempio Maledetto. A dire il vero, un gioco di cui si salvava poco. Pessimi ricordi. Devo ammettere che lo stesso film è a mio avviso il peggiore della trilogia originale della serie, pur essendo comunque un buon film. Ma il gioco era un bel guazzabuglio di problematiche. Perlomeno in alcune sue versioni.
Dunque, partiamo dal concetto che questo gioco venne realizzato da Atari nel 1985 per cabinati, e solo negli anni successivi verrà convertito per altre piattaforme tra cui NES e Commodore 64. Ecco, tra le poche recensioni che si trovano oggi online di Temple of Doom c’è proprio quella della versione per Commodore 64, che la definisce una grande delusione con controlli terribili, una palette cromatica aberrante e una grafica oscena. Insomma, un bel biglietto da visita. A dire il vero, altre recensioni sono più morbide, con un gioco che aveva comunque importanti limiti strutturali legati all’epoca di riferimento.
Divenuto un grandissimo successo tra i cabinati, Temple of Doom adattava solo il finale del film. Era diviso in tre diversi livelli, in ognuno dei quali accadevano cose particolari. Nella prima parte, Indy doveva salvare i bambini schiavizzati e fermare le guardie del perfido sciamano che mi sognavo la notte, in una fase a scorrimento multidirezionale. La seconda parte era poi la celebre sequenza dell’inseguimento del carrello da miniera: stavolta la visuale era isometrica, Indy stava all’interno del carrello e doveva colpire i cattivi con la frusta mentre viaggiava lungo i binari del tempio maledetto. Poi veniva il momento della fase finale, in cui il protagonista doveva afferrare una delle pietre Sankara. Ne mancavano due. Bene, si ripartiva da capo e si rifaceva il procedimento, uguale identico, anche per le altre due pietre sacre – c’era poi un extra alla fine di tutto, ambientato sul ponte tibetano di fine film.
Non ho mai avuto la possibilità di giocare questo titolo nella sua forma originale, ma l’adattamento per NES, che dovette rimuovere parte del gameplay a causa delle limitazioni della console, non è certo stato un grande momento. Temple of Doom era inevitabilmente legato alla sua natura da cabinato arcade, e questo ne abbassava drasticamente le possibilità. Capisco però il grande successo che ha avuto: Indiana Jones era una potenza del cinema, e tutti volevano giocare nei suoi panni. Chissà quanti quarti di dollaro sono stati spesi per cercare di completare la raccolta delle pietre Sankara. Il binomio cinema-videogiochi continuava a funzionare. Eppure, abbiamo dimenticato un pezzo del puzzle che è la storia dei videogiochi dedicati al personaggio.
Torniamo indietro nel tempo, al 1984. Al cinema esce il già citato Indiana Jones e il Tempio Maledetto, tutti contenti e blablabla. Lucasfilm aveva già in mente un altro videogioco per cavalcare l’onda del successo, di cui abbiamo appena parlato, ma non molti sanno o ricordano che nel 1985 non uscì solo Temple of Doom, bensì due videogiochi dedicati al personaggio! L’altro, pubblicato su Commodore 64, vedeva Indiana Jones impegnato a raccogliere un manufatto per svelare i misteri di una civiltà perduta, un tempo dominatrice di un grande regno. Titolo del gioco: Indiana Jones in the Lost Kingdom.
La struttura del gioco era abbastanza differente da quella di Temple of Doom, e anche a occhio nudo si percepiva questa distanza. Sviluppato da Michael J. Hanson e pubblicato da Mindscape, il gioco era un puzzle game in tutto e per tutto, ambientato in sei aree differenti dove ognuna conteneva enigmi decisamente tosti da risolvere. Rispetto a Temple of Doom, molto più frenetico e dedicato all’azione, Lost Kingdom era compassato, richiede di ragionare, risultando però difficile e soprattutto ingiusto. Nessuno suggeriva nulla in Lost Kingdom. Il giocatore era abbandonato al suo destino.
Un titolo come questo, oggi, dove specialmente gli utenti più giovani sono bombardati di semplificazioni e suggerimenti, risulta ingiocabile, quasi incomprensibile. Il tempo non è stato clemente con questo prodotto, e questo fa capire quanto il suo concept fosse disturbante. La confezione si vantava addirittura orgogliosamente della cosa, scrivendo che “Nessuno ha detto a Indiana Jones le regole. E nessuno lo dirà a te”. Idea intrigante, ma comunque il giocatore deve poterci capire qualcosa. E in Lost Kingdom, invece, non ci si capiva niente.
Indiana Jones in the Lost Kingdom è comunque importante da menzionare in questa retrospettiva in quanto fece qualcosa di nuovo, anche in relazione all’intero mondo dei videogiochi e alla sua storia: questo non era più un videogioco che proponeva quello che gli spettatori avevano visto al cinema, ma prendeva invece il noto protagonista e lo buttava all’interno di un’avventura tutta nuova, di cui nessuno era a conoscenza. Il primo tentativo di un universo espanso, che in effetti poi Lucasfilm sfrutterà con maggior decisione all’inizio degli anni ‘90 con la serie tv Le avventure del giovane Indiana Jones dove Sean Patrick Flanery prendeva il posto di Harrison Ford.
Appunto, nel 1987 arrivò un’altra avventura inedita nei videogiochi, Indiana Jones in Revenge of the Ancients, sempre di Mindscape. Pubblicato su computer Apple II e MS-DOS, questo gioco si proiettava nel futuro del marketing ingannevole, perché presentava una copertina con immagini del film Indiana Jones e il tempio maledetto… ma nel gioco non c’era nulla di tutto questo, e anzi non aveva proprio nulla a che vedere col film – oltre al protagonista, ovvio. Si trattava puramente di un’avventura testuale. Non c’erano immagini o animazioni, solo puro testo dall’inizio alla fine.
Se siete amanti delle vecchie avventure testuali con le schermate nere e un sacco di testo bianco, allora probabilmente lo avete giocato o dovreste provarlo. Questi giochi, del resto, erano molto comuni all’inizio degli anni ‘80, e tra le avventure testuali troviamo anche alcune grandi perle del passato come Zork. Ah sì, peccato che non fossero gli inizi degli anni ‘80 ma quasi la fine di questo decennio, e così finì per interessare un pubblico davvero troppo, troppo ristretto. Ne abbiamo parlato anche troppo? Ne abbiamo parlato anche troppo.
Appuntamento alla Parte 2!
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