Silent Hills è tutt’oggi un tema scottante. Doveva essere una sorta di rinascita creativa per Hideo Kojima dopo decenni passati ad occuparsi della sua più celebre creatura, Metal Gear. Doveva essere il debutto, videoludicamente parlando, di Norman Reedus, che già appariva a sorpresa in quel terrificante PT pubblicato nel 2014. E poi, invece, il disastro. Il divorzio di uno dei matrimoni più longevi, quello tra Kojima e Konami, che trascinandosi i dissapori generati dal lungo e travagliato sviluppo di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, hanno scelto di dirsi addio in maniera ben poco amichevole. Libero dalle oppressioni del colosso giapponese, che negli ultimi anni sta dedicando molte meno energie al mondo ludico, Kojima è quindi andato avanti. Nuova vita, nuove idee e un nuovo studio, Kojima Productions, ufficializzato alla fine del 2015 e pronto a sbalordire pochi mesi dopo.
Era l’E3 2016 quando Sony, in una delle sue più brillanti conferenze di sempre se non addirittura la più ispirata tra tutte, accoglieva sul palco di Los Angeles il buon Hideo Kojima, che nel suo lapalissiano “I’m back!“, che siamo sicuri fosse rivolto anche a Konami, preannunciava l’arrivo di un trailer enigmatico, forse incomprensibile ma allo stesso tempo carichissimo di significati, capace di generare teorie che il mondo del web e non solo si porta dietro sin da quel momento. Death Stranding, che all’epoca era ancora solo un’idea tanto da non aver ancora un motore grafico ben definito, aveva stupito in lungo e in largo. Non solo per il ritorno di Reedus, che faceva tornare alla mente PT, ma anche le atmosfere kojimiane, la continua metafora, il segreto che si celava all’interno di ogni inquadratura. Il pubblico, in sala e a casa, era impazzito, e così nacque un vero e proprio movimento votato a cercare di capire il più possibile su questo Death Stranding. Dopo più di 3 anni di sviluppo, vari trailer più o (molto) meno comprensibili, possiamo affermarlo: ci avevamo capito qualcosa, ma non tutto tutto. Avevamo intuito parte della sostanza del gioco, ma non tutto. Death Stranding, come Kojima lo definiva, si è rivelato essere qualcosa di diverso. Un gioco, sì, ma non solo. Qualcosa che, se possibile, va oltre alla semplice sfera dell’intrattenimento.
OLTRE L’INTRATTENIMENTO
Prima di cominciare a parlare nel dettaglio del gioco, c’è una domanda che molti si chiedono quando vogliono o meno procedere all’acquisto non solo di Death Stranding, ma di un qualsiasi videogioco. Il prodotto che sto per andare a mettere nel carrello del negozio, in questo caso Death Stranding, diverte oppure no? Un quesito che, in realtà, presenta tantissime sfaccettature da tenere in considerazione. Il dizionario italiano, quando andiamo a cercare la voce dell’aggettivo divertente, lo definisce come
Piacevolmente interessante; spassoso, spiritoso
Tanto che, tra i suoi sinonimi, troviamo altri aggettivi come buffo e bizzarro. Chi mastica videogiochi da una vita, come il sottoscritto, sa perfettamente che questa definizione non si può legare a qualsiasi tipo di videogioco, né tantomeno ad una qualsiasi esperienza che possiamo vivere all’interno di un prodotto pensato, attenzione, per intrattenere. Non divertire. O comunque, non per divertire nel più puro significato del termine, che abbiamo appena visto essere molto legato ad una sensazione di piacevolezza e tranquillità.
Death Stranding non è divertente, affatto. Non provoca piacevolezza e tranquillità, se non in quelle neppure tanto rare occasioni che vedono il buon Sam Porter Bridges, protagonista di questa intensa esperienza videoludica, cimentarsi nella traversata di vaste praterie, o impegnato a scendere una montagna dalla quale si scorge un panorama mozzafiato. Death Stranding è un’esperienza, un viaggio letteralmente e figurativamente parlando, una profonda storia da vivere dall’inizio alla fine ma che non sarà mai uguale tra una persona e un’altra. Ognuno di noi prova qualcosa di diverso interfacciandosi ad un videogioco come Death Stranding, che sì, nella sua dimensione, porta qualcosa di mai visto prima nel mondo ludico. E questo va al di là di tutto, va al di là dei pregi e dei difetti di cui discuteremo tra poco, tutti facenti parte di una produzione giovane ma avveneristica, acerba, forse, ma anche sognatrice. Come lo è sempre stato Kojima, del resto.
L’UNIONE FA LA FORZA
Ma per quale motivo Death Stranding non è propriamente divertente? Perché, semplicemente, il suo scopo è quello di creare ben altre sensazioni nella mente e nel cuore del giocatore, spinto dall’insaziabile fame della conoscenza e di una connessione sulla quale si basa l’intera idea del gioco. Sam Porter Bridges, fattorino per passione e protagonista per convenzione, è un solitario corriere all’interno di un’America completamente fratturata e separata, distrutta all’interno e all’esterno da un misterioso evento noto come Death Stranding che ha portato alla nascita di particolari e mortali fenomeni. Tra questi, ci sono naturalmente le apparizioni delle CA, una sorta di manifestazione di morti che dall’adilà, tramite un cordone ombelicale, riescono a manifestarsi nel nostro mondo per andare a caccia di vita, che possono essere percepiti dalla tecnologia dei BB. Bambini creati sostanzialmente in laboratorio, che condividono parte di questo mondo e dell’altro. Insomma, un gran casino.
Parlare apertamente degli elementi della trama di Death Stranding, pensando di non sfociare in spoiler, è pura utopia per quanto mi riguarda. C’è Sam, interpretato da Norman Reedus, taciturno ma determinato e carismatico protagonista capace di creare grandi legami, in tutti i sensi. C’è Fragile (Lea Seydoux), protagonista di alcuni dei momenti più toccanti dell’intera storia, proprio come Mama (Margaret Qualley). Ci sono poi Bridget (Lindsay Wagner), Die-Hardman (Tommie Earl Jenkins), Deadman (Guillermo del Toro), Heartman (Darren Jacobs), il misterioso Clifford (Mads Mikkelsen), il temibile Higgs (Troy Baker), per una produzione che sul piano cinematografico mette in scena un cast davvero stellare dalla caratterizzazione e interpretazione magistrale, e un’imponente narrazione che si pone come un nuovo punto di contatto tra il mondo dei videogiochi e il grande schermo, grazie anche ad una capacità registica di Kojima che sta raggiungendo livelli impressionanti. Non a caso, Kojima Productions ha intenzione di spingersi anche nel mondo del vero e proprio cinema, come forse avrete letto nei giorni scorsi.
Non voglio anticiparvi nulla della storia. Nulla, per non rovinarvi la sorpresa e l’esperienza che deve essere Death Stranding, che non si basa soltanto sulle classice scene di intermezzo nelle missioni principali ma che contiene uno sconfinato sottobosco di informazioni, interviste, retroscena, segreti tutti da scoprire a nostra discrezione, che ampliano in maniera esponenziale la lore di questo studiatissimo mondo. Non anticipo nulla, se non quello che già sapevamo da prima del lancio del gioco, ossia che la missione principale avrebbe visto Sam mettersi in viaggio per riconnettere quante più città e prepper possibili alla rete UCA (United Cities of America) e ricostruire un mondo che sembra essersi perduto, una civiltà che non c’è più, la stessa razza umana che non ha più fiducia nel prossimo. Il Death Stranding ha provocato questo, un isolamento che non si vede solamente nella manifestazione del mondo fratturato, ma anche nei cuori delle persone. Distaccate, vaghe, poco propense a tornare a far parte di un gruppo. Un messaggio che, se ci pensate, arriva proprio dal nostro mondo, quello reale. La rincorsa al web, il tempo che ogni giorno dedichiamo ad un mondo, quello virtuale, che non è quello al quale apparteniamo, tutto questo sta spingendo l’umanità a isolarsi, a separarsi, a stare chiusa in casa in cerca di comodità piuttosto che calore e relazioni. Il rischio è, paradossalmente, quello di un Death Stranding anche per noi. Non nei catastrofici risvolti che ha avuto nell’universo immaginato da Kojima, certo. Ma il pensare più a noi, solo a noi, e di mettere in secondo piano tutti gli altri, è qualcosa che l’uomo sta purtroppo sperimentando sempre più oggigiorno. Occorre tornare a creare legami, come quello che Sam sperimenta con BB-28, il bambino incapsulato dall’inizio alla fine e che è impossibile non amare.
TAGLIARE I CORDONI, CREARE I CORDONI
E dunque Sam, in barba a tutti i pericoli mortali che lo circondano, si mette in viaggio. Zaino in spalla, il suo compito è quello come detto di ricostruire la rete UCA per spingersi fino alla costa Ovest di quella che una volta era conosciuta come America, tutto questo consegnando pacchi. Sì, avete capito bene: pacchi, che da buon fattorino variano per importanza, significato o forma. Si va da semplici consegne relative a beni essenziali e oggetti comuni come pane, cibo, film, libri e così via, fino a ordini ben più corposi, che variano da medicinali che devono giungere il più intatti possibili a destinazione fino addirittura a persone, che desiderano spostarsi dalla loro struttura verso altri luoghi. E occorre anche dire che è proprio questo il core dell’esperienza di Death Stranding. Una lunga, infinita sequenza di ordini da accettare, pacchi da prendere in consegna e portare al punto stabilito, con gli incarichi che, in fondo, non variano mai la propria struttura se non marginalmente. L’intero gioco basa la sua esistenza sull’idea e sull’utilizzo di fetch quest, missioni secondarie che si fanno avanti di volta in volta per aumentare la rete chirale che costruiamo virtualmente in tutta l’America.
Ma allora, che cos’è Death Stranding? È possibile farlo rientrare in una particolare tipologia di videogioco? Ni, a dire il vero. Perché Death Stranding possiede elementi survival, legati all’intricata fisica del corpo di Sam che può arrivare a trasportare quintali e quintali di oggetti per portare a termine una consegna ma anche alla sua salute. Sam deve bere, deve riposare, deve mangiare, lavarsi, recuperare vigore, addirittura disporre i numerosi carichi sulle sue spalle in maniera ottimale per non compromettere eccessivamente il baricentro del corpo, se vuole sperare di riuscire a superare indenne i pericoli delle CA e delle altre minacce del mondo. Ma Death Stranding è anche stealth nelle sue fasi più tese, quando i morti che si manifestano sul suo mondo lo costringono a diventare più cauto, riflessivo e prudente, aiutato dal BB che percepisce la presenza e la posizione di chi non è più tra i vivi. Potremmo dire che Death Stranding è anche un gioco d’azione, seppur abbozzato. I MULI, malefici corrieri rivali che hanno deciso di tradire la loro missione originale per diventare le minacce di tutti gli altri fattorini che ancora si prodigano per le UCA, fanno di tutto per intercettare Sam quando questi passa in un terreno sotto il loro controllo. Se i MULI si accorgono della sua presenza, partono in massa per fermare Sam e rubare il suo carico, e il protagonista può rispondere al fuoco a forza di pugni o addirittura armi, nelle fasi avanzate del gioco. Tutta questa componente, però, a causa di uno shooting molto poco incisivo, è sicuramente la più debole di Death Stranding, che difatti cerca di spingere il giocatore a fare di tutto pur di non ingaggiare uno scontro a fuoco senza pensarci, sin dal principio. Uccidere un MULO, ad esempio, può portare alla nascita di nuove minacciose CA. Meglio scegliere di nascondersi il più possibile tramite l’erba alta o gli ologrammi, in attesa di momenti più favorevoli, o di nuove vie da aprire per noi e per gli altri. Perché Death Stranding è anche e soprattutto condivisione.
Vero, sono piovute critiche dopo l’uscita di Death Stranding, specialmente da parte di coloro che proprio non riescono a sopportare il fatto che la missione di Sam, e conseguentemente le missioni in gioco di Sam, sia una sola: continuare nella sua opera di consegna dei pacchi. Un Bartolini simulator, come qualcuno lo ha già più volte etichettato, sbagliando ovviamente. Perché la forza di Death Stranding non è in una struttura delle missioni che sì, lo riconosco, può allontanare più di un giocatore visto l’infinito ripetersi di richieste e informazioni tutte uguali, e che non vuole per forza abbracciare quanto più pubblico possibile vista la particolarità di queste idee. No, la forza di Death Stranding risiede in come queste missioni vengono affrontate, e in come il vero protagonista, il giocatore stesso, sceglie di far parte di qualcosa di molto più grande. Nel corso del gioco – che per chi se lo chiedesse, in termini di longevità, può portare via da circa 25 ore per la storia a più di 120 per il completamento di tutte le richieste, se non addirittura oltre – Sam avanza da est a ovest conoscendo più persone, aumentando la sua conoscenza e il database delle UCA. Connettere tramite il Q-pid una città o un prepper porta infatti ad un aumento della copertura della rete chirale, permettendo inoltre alle strutture di scambiarsi preziosissime informazioni sulle tecnologie o, ad esempio, il meteo. Una sorta di internet all’ennesima potenza, se ci pensate, che poi è anche ciò che va a determinare l’elemento chiave di Death Stranding, la condivisione di questo mondo di gioco. L’intera esperienza si basa su una struttura multiplayer asincrona, dove ciò che facciamo influenza in qualche modo il modo di giocare di altre persone, e viceversa. Siete in procinto di avvicinarvi ad una nuova struttura e utilizzate un CCP per costruire un generatore, in modo tale da ricaricare la batteria del veicolo o dell’esoscheletro? Bene: una volta che l’intera area sarà connessa alla rete chirale, questa struttura potrà essere utilizzata (in cambio di un utile Mi Piace) anche da altri giocatori per il medesimo scopo. Capiterà quindi di battere sentieri per la seconda volta e trovarli differenti da come li ricordavate. Scalare una montagna è tosto la prima volta, ma riserva sorprese nella seconda occasione, quando ormai la struttura fa parte della rete chirale: ponti, chiodi da arrampicata, scale, scale, torri di guardia, addirittura intere strade che collegano l’America intera. Il giocatore capisce di essere parte di un mondo, di lavorare non solo per se stesso ma anche per gli altri, capisce che dal suo operato passa il successo non solo suo ma di tutti.
L’idea del mondo condiviso è davvero mozzafiato. Non freintendete, non incontrerete mai un altro giocatore in “carne ed ossa”, ma osserverete il suo manifestarsi in più modi. Strutture, come detto, ma anche pacchi abbandonati che possiamo recuperare e consegnare al posto loro, ad esempio, aiutandoli a portare a termine una consegna finita male. Ma anche condivisione di oggetti e armi presso le strutture, indicazioni stradali di pericoli. Persino i sentieri. Ragazzi, questa è una cosa davvero sbalorditiva. Più andrete avanti in Death Stranding, più vi accorgerete che i sentieri più battuti dai giocatori a piedi e con i veicoli consumano letteralmente il prato, tracciando solchi che indicano quindi le vie più semplici da percorrere per consegnare nel minor tempo possibile il pacco in questione.
Death Stranding non è un gioco difficile, anzi. L’idea stessa di Kojima si basa sul creare un titolo che nel quale il giocatore non può propriamente fallire, aiutato anche da tutto ciò e tutti coloro che lo circondano. Semmai, la difficoltà arriva da elementi del gameplay studiati ad hoc per far sì che il viaggio di Sam sia sempre ricolmo di pericoli. Le CA, ad esempio, si manifestano attraverso la Cronopioggia, una precipitazione atmosferica legata all’altro mondo che è letteralmente una pioggia con effetti temporali. Tutto ciò che la pioggia tocca, invecchia velocemente. E così, mentre attraversiamo un terreno restando sbalorditi dal motore di gioco che in tempo reale fa crescere fili d’erba e li fa morire poco dopo per effetto della cronopioggia, anche i nostri carichi “invecchiano”, si consumano, facendo anche del tempo (quello cronologico, non meteorologico in questo caso) un altro aspetto fondamentale da non dimenticare. Più si va avanti, comunque, più la difficoltà scema, grazie soprattutto a quello che il mondo diventa grazie all’operato di chi lo sta vivendo. I pacchi vengono consegnati, gli abitanti sono contenti, il mondo si popola di strade e “vita”, se così vogliamo chiamarla. Il gameplay è molto più profondo di quanto si possa pensare, ed eredita buona parte delle intuizioni che Kojima aveva già avuto ai tempi di MGS V, dove in effetti ci si poteva lamentare di tante cose ma non delle possibilità a disposizione di Snake. In Death Stranding, accade la stessa cosa. Non potremo portare con noi tutto quello che vorremo durante un viaggio, dovremo dosare alla perfezione carichi richiesti, armi, granate, sacche di sangue, esoscheletri, energia della batteria, risorse a disposizione per sfruttare ad esempio gli Hovercarri e avere più capacità di peso. Non fatevi trarre in inganno da semplici considerazioni di chi dimostra di non aver affatto provato il gioco. Il vero Death Stranding è quello che ognuno di noi deve provare, per comprenderlo.
IL MIGLIORE
Ben poco da dire su tutto quello che concerne il comparto audiovisivo nel suo complesso. La colonna sonora è straordinariamente immersiva, i brani sono pochi ma posizionati strategicamente, così come le canzoni che di tanto in tanto, in occasione di intensi momenti o traversate significative, irrompono sopra Sam per allietare il viaggio. Per non parlare dei semplici suoni di nemici, armi e oggetti, capaci di amplificare la già tesa atmosfera in molti momenti di tensione. Doppiaggio italiano, inoltre, promosso a pieni voti, dotato di qualità e sentimento come ormai le esclusive PS4 ci hanno abituato in questi ultimi anni.
Il Decima Engine di Guerrilla Games, poi, è quanto di più alto questa generazione videoludica abbia partorito. Già l’avevamo visto all’opera su Horizon: Zero Dawn, ma qui su Death Stranding, complice anche l’esperienza accumulata e le migliorie apportate, il motore di gioco restituisce un colpo d’occhio davvero mozzafiato, sulla grande così come sulla piccola scala. Texture ad altissimo livello, prestazioni ad altissimo livello, Death Stranding è un’enorme opera anche sotto questo profilo, e anche il motore fisico, complice la studiata struttura dei movimenti del protagonista, restituisce ampia sensazione di realismo. Per non parlare poi del motion capture utilizzato su tutti gli attori che hanno preso parte a questo ambizioso progetto, praticamente perfetto se non traballasse leggermente in alcune espressioni facciali che risultano poco umane, ma fortunatamente ciò si rivela essere un difetto ben poco ricorrente. Forse, ecco, l’unica pecca che possiamo denunciare riguarda alcuni vasti ambienti un po’ troppo spogli e uguali a se stessi, ma è anche vero che questa sensazione è voluta dallo stesso Kojima, che desidera spingere i giocatori ad essere loro stessi i primi fautori dell’evoluzione di questi ambienti. Geniale anche qui.
PUNTI DI FORZA
- È un’esperienza davvero affascinante
- Gameplay molto profondo, più di quanto si possa pensare
- Il solito, grande Kojima è tornato
- Graficamente straordinario
PUNTI DEBOLI
- La struttura delle missioni non varia praticamente mai dall’inizio alla fine
- Non potrà mai essere apprezzato da tutti
Il punto è uno: Death Stranding è imperdibile per me così come per tanti altri videogiocatori, coloro che cercano nel medium qualcosa di più di una semplice esperienza frenetica, spensierata, avventurosa o quant’altro. Allo stesso tempo, come avete potuto leggere nel corso della recensione, questo non è affatto un videogioco adatto a tutti, non solo per il forte tema trattato ma anche per come questo tema viene trattato, per il gameplay lento e riflessivo, per la struttura delle fetch quest tutte uguali e allo stesso tempo tutte diverse per l’approccio che diamo, per l’apporto che diamo al mondo e per ciò che prendiamo dal mondo degli altri giocatori. Per quanto ci riguarda, Hideo Kojima ha fatto centro. Di nuovo, e in maniera più ispirata rispetto a quel Metal Gear Solid V che, in larga parte, ho personalmente mal sopportato.
Ringraziamo PlayStation Italia per il codice review di Death Stranding.
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