Tra le numerose bombe della conferenza Sony all’E3 2016, ce ne fu una che catalizzò su di sé un grande interesse da parte del pubblico. Il suo nome era Detroit: Become Human, che venne presentato con un reveal trailer (in realtà poi si scoprirà che il gioco affondava le sue radici in una tech demo del 2012) che mostrava le immense potenzialità del titolo. Un drammatico evento, una sequenza di eventi messi in moto da qualcosa ancora ignoto, ma il punto focale della presentazione fu soprattutto messo sull’incredibile varietà di scelte, conseguenze e finali che noi stessi avremmo potuto compiere in questo rivoluzionario titolo, che sin da subito si prefissava di dare al giocatore le chiavi di una storia tutta da scrivere. Non poteva essere altrimenti, perché le menti dietro a Detroit: Become Human si chiamano David Cage e Quantic Dream, gli stessi che negli anni sono stati capaci di partorire pietre miliari delle avventure grafiche come Fahrenheit, Heavy Rain e Beyond: Two Souls. Dopo un periodo di gestazione che sembrava infinito, un hype montato ad hoc dal solito preparatissimo reparto marketing di Sony e un lavoro certosino da parte di Quantic Dream, che ha partorito una sceneggiatura che rasenta le 3000 pagine di script, ecco che finalmente siamo pronti a dirvi la nostra su Detroit: Become Human nella nostra recensione.
BENVENUTI NEL FUTURO
Siamo a Detroit, nel 2038. La metropoli americana è sulla cresta dell’onda ormai da tempo, sta guardando ad un futuro tecnologicamente sempre più florido, e questo soprattutto grazie all’azienda che ormai la rappresenta in tutto il mondo. La CyberLife, colosso fondato dal miliardario Elijah Kamski, è la leader mondiale della produzione degli androidi, esseri artificiali dotati di biocomponenti e in grado di replicare alla perfezione le fattezze di un essere umano, tanto da esserne distinguibili solamente grazie ai led posizionati sulle loro tempie o a macchinari creati appositamente per questo scopo. Gli androidi sono divenuti molto rapidamente parte della vita delle persone. Medicina, agricoltura, polizia, uffici pubblici, impieghi privati, gli esseri artificiali creati da Kamski e dalla CyberlLife hanno rivoluzionato completamente la società, ora in preda ad una serie di inevitabili malcontenti che si diffondono molto rapidamente. L’arrivo degli androidi ha scombussolato la vita di molte persone, che ora si ritrovano senza un lavoro, una famiglia, addirittura senza una casa, e questo genera rivolte. Potremmo asserire che la società di Detroit, la prima città a fare un massiccio utilizzo degli androidi, sia sull’orlo di un collasso.
Questo clima di già problematici subbugli, c’è qualcos’altro che sta preoccupando la CyberLife e l’intera polizia di Detroit. Alcuni androidi, il cui numero sta crescendo sempre più a quanto si dice in città e nei vari ambienti competenti, stanno sviluppando una sorta di personalità propria, di coscienza. Alcuni androidi stanno ad esempio andando incontro alla paura di morire, un sentimento che per definizione potrebbe appartenere solamente a chi può morire, e cioè un essere vivente. E da qui parte il più grande quesito di Detroit: Become Human, che accompagna lo spettatore/giocatore lungo tutto il suo tragitto e che andrà a determinare l’intero divenire della storia: questi androidi, costruiti con componenti organici e dall’uomo ma pur sempre in grado ora di provare emozioni, possono essere considerati esseri viventi a tutti gli effetti? Quella di Simon, l’androide Deviante (così si chiamano coloro che deviano dalla loro programmazione, nome non scelto a caso) che incontriamo nel corso della primissima missione disponibile anche sotto forma di demo sul PSN, è una semplice disfuzione del software, un virus maligno che ha contagiato la sua IA, o c’è qualcosa di vero sotto, di più profondo? Un quesito che, come dicevamo, ci accompagna per tutta la durata della storia, e al quale risponderemo noi stessi con le scelte che compiamo. Siamo noi, in Detroit: Become Human, a scrivere la nostra storia. Ed è un processo più profondo di quanto mai visto prima d’ora per un’avventura grafica o per un titolo targato Quantic Dream. Portare a termine la storia per la prima volta occupa circa una decina di ore, ma fidatevi: non avete ancora visto nulla del gioco, perché la vera forza è la sua rigiocabilità. Potreste arrivare alla conclusione due, cinque, dieci volte senza magari vedere neanche tutte le vicende e i finali possibili.
SONO IO A SCRIVERE LA MIA STORIA
Nel perfetto e inconfondibile stile di David Cage, la storia di Detroit: Become Human offre solamente una sorta di solido background narrativo ed un filo conduttore degli eventi, dal quale però si diramano tutte le scelte a disposizione del giocatore. E la cosa più importante da sottolineare, una sensazione che vi accompagnerà sin dalle prime battute e dalla presentazione dei personaggi che avviene nella prima ora di gioco, il gioco lascia al giocatore una libertà quasi totale di plasmare la narrazione di questo thriller sci-fi a suo piacimento, compiendo una gamma di scelte talmente vasta da originare molte più storie. È qui che emerge fuori il vero e grande talento di Cage e dei suoi dipendenti, quello di saper dare vita ad un impianto narrativo solidissimo e sempre ben contestualizzato ma delineato da quelle che sono le scelte imposte dal giocatore al gioco stesso. Nonostante esistano alcune, fortunatamente poche, inevitabili accadimenti o (fortunatamente poche) forzature per mandare avanti la storia, ognuna delle esperienze che abbiamo vissuto vive di emozioni proprie, di esperienze differenti, talvolta notevolmente a seconda della piega che decidiamo di dare agli eventi. Non poteva essere altrimenti, viste le premesse della storia di Quantic Dream e ciò che ci è sempre stato detto su questo titolo. Una sceneggiatura maestosa in ogni sua sfaccettatura, un copione quasi infinito (si parla di quasi 2500 pagine di script) e perfetto, che nonostante una storia che di sfondo ha ben poco di originale, con temi già visti e rivisti tra cinema, TV e molti altri media (Cage ha sempre dichiarato di avere avuto l’idea del gioco dal libro La singolarità è vicina, di Raymond Kurzweil), riesce sempre a sorprendere per come progrediscono le vicende dei tre protagonisti, cadendo forse nel finale in alcuni risvolti troppo telefonati ma mai così banali da essere denigrati da chi guarda.
Inizialmente separati per contesto, appartenenza e storia pregressa, i tre androidi protagonisti di Detroit: Become Human finiscono ben presto con l’essere parte di un unico grande filone: la rivolta dei Devianti, che finirà con l’essere capeggiata proprio da Markus, inizialmente una sorta di androide da compagnia di un anziano pittore al quale è molto legato. Abbiamo poi Kara, androide molto diffuso in città perché adibito alle cure della casa: rassettare, pulire, curare i bambini, espletare insomma quei compiti che le persone, essendo a lavoro per buona parte della giornata, non riescono a fare. Entrambi gli androidi hanno quindi esperienze e una storia similare, seppur immersi in contesti completamente differenti: Markus vive nel lusso (se così si può dire, dato che parliamo pur sempre di un androide), Kara è invece legata ad una situazione famigliare molto complicata, quasi disperata per la piccola bambina Alice. In qualche modo, nelle vite di entrambi, irrompe la minaccia dei Devianti, e con essa anche Connor, il personaggio a nostro avviso più interessante dell’intera storia. Connor è un androide avanzatissimo, l’ultimo modello della CyberLife, creato per un unico scopo: trovare, fermare e studiare i Devianti, per capire cosa sta accadendo in città e placare la crescente rivolta. Oppure no?
La cosa che colpisce, di Detroit: Become Human, è questo dualismo che intercorre tra il giocatore e i protagonisti, tre androidi che dovrebbero sottostare alle rigide leggi della programmazione. Connor, Markus e Kara non possono pensare per conto proprio, e qui interviene il giocatore, che decide di far interpretare ad ognuno dei personaggi un dato ruolo. Render Markus impulsivo e aggressivo, o pensare piuttosto ad una rivoluzione, quella degli androidi, che tramite manifestazioni pacifiche cerca di porre fine alla segregazione e alla violenza nei confronti di questa nuova forma di vita senziente sulla Terra? È un aspetto che mi ha dato modo di riflettere sin dall’inizio: siamo persone reali che seguono la vita di esseri dotati di IA ma che dovrebbero seguire le precise indicazioni degli umani, senza mai deviare dal loro codice. È qualcosa che anche noi, nella vita reale, facciamo? Quasi mai, e qui si nota la grande intuizione del gioco di David Cage, capace di offrire al giocatore possibilità quasi illimitate per dare vita a nuovi spunti, nuovi fatti, nuovi racconti. La scelta di plasmare la personalità dei tre androidi non è limitata alle prime battute, le questioni possono evolvere così come le mentalità di ogni comprimario che ha a che fare con noi e che giudica il nostro operato, dagli androidi compagni di Markus al burbero tenente Anderson, interpretato da Clancy Brown (Highlander, Homefront, Thor: Ragnarok) e implicato nella storyline di Connor. Sta sempre a noi interpretare ogni momento e decidere, spesso in pochi istanti, cosa fare della vita dei vari personaggi, con una grande immersione in questa sempre grande storia da raccontare, nella quale non c’è una cosa giusta o sbagliata. Il futuro dipende dalle nostre azioni, qualsiasi esse siano.
REALISMO
Pionieri della motion capture nei videogiochi già dai tempi di Heavy Rain, i ragazzi di Quantic Dream hanno compiuto un lavoro magistrale anche sulla rappresentazione e creazione dei protagonisti per Detroit: Become Human. I tre personaggi principali sono stati assegnati a Jessie Williams, Valory Currie e Bryan Dechart, capaci di dare un notevole spessore ai loro rispettivi avatar Markus, Kara e Connor. Pur dovendo presentare a schermo androidi, tecnicamente non avezzi alle emozioni e ad avere una personalità propria, i tre hanno saputo dosare alla perfezione espressioni facciali, reazioni naturali, modi di fare e di agire ricchi di tensione nei giusti momenti viste le difficili situazioni in cui versano i personaggi. Un realismo straordinario, che riflette la grande tecnologia proposta dalla CyberLife con androidi che replicano l’essere umano, coadiuvato da una Detroit viva, bella, scenicamente perfetta, e da un comparto tecnico di altissimo livello. Solo in un paio di occasioni abbiamo rilevato texture lente da caricare, ma il lavoro svolto da Quantic Dream è generalmente vicino alla perfezione, con modelli poligonali dei personaggi e degli ambienti ottimi, così come le animazioni, che nel caso però di alcuni NPC risultano un po’ troppo legnose. Le musiche fanno il loro sporco lavoro, adattandosi ad ogni contesto, così come la perfetta regia di Cage, che riesce a mettere in evidenza ogni importante aspetto di ciò che sta accadendo (ma lasciando al giocatore la possibilità di esplorare le cose da un’altra prospettiva, premendo quando consentito il tasto L1) e restituendo spesso il giusto livello di calma o di tensione che stiamo vivendo, sia esso una delle indagini di Connor o un frenetico inseguimento tra i palazzi di Detroit. La cura maniacale verso il prodotto la si vede anche dalle piccole cose, come i dialoghi che continuano anche quando andiamo ad interagire con oggetti o indizi, senza l’innaturale troncatura di essi.
Ma a conti fatti, cosa si può fare davvero in Detroit: Become Human? Abbiamo parlato della vasta libertà concessa al giocatore, in grado di scegliere tra decine, forse centinaia di possibili vie per proseguire nella sua storia. Ma, per chi non è un esperto dei titoli Quantic Dream, cosa si può realmente fare nel gioco a livello di gameplay e come questo si è evoluto, dalle precedenti produzioni? Il sistema di gioco rimane molto canonico, Detroit: Become Human è un’avventura grafica interattiva, nella quale la narrazione spesso sovrasta l’intenzione di far giocare il giocatore in una maniera tradizionale. Nei momenti più concitati, l’interazione con il titolo è “limitata” ai QTE, talvolta permissivi e talvolta molto più crudeli (la modalità Esperto è una chicca per veri esperti del genere e merita di essere esplorata a fondo vista la migliore immersività e velocità), rischiando di rovinarvi quanto costruito fino a quel momento. Esistono però anche sezioni più libere, con ambienti aperti da esplorare – pur sempre logicamente delimitati, e con un’interazione con gli oggetti e l’ambiente molto limitata – e nei quali scoprire ad esempio qualcosa di più sul mondo di gioco, oppure grazie ai quali possiamo aprire nuove possibilità al futuro, sbloccando percorsi logici da utilizzare nei dialoghi e nelle fasi seguenti, anche a distanza di interi capitoli. L’impressione è che tutto quello che facciamo, anche le piccole cose, abbia un impatto sull’economia generale della narrazione. Nulla è lasciato al caso, e il prologo dell’interrogatorio di Connor, nella prima missione, ne è la prova. Certo, non ci saremmo lamentati se il gameplay avesse osato qualcosa di più. Le fasi investigative sono delle vere chicce, forse la parte “giocata” migliore di Detroit: Become Human nelle quali dobbiamo attentamente ricostruire ogni passo del sospettato e le sue azioni, ma forse poteva essere fatto qualcosa di più nelle sezioni stealth, ad esempio, limitate ad un nuovo utilizzo dei tasti senza lasciare adrenaliniche sensazioni.
Per gli amanti del completismo, Quantic Dream ha pensato bene di regalare, alla fine di ogni capitolo, una sorta di mappa concettuale degli eventi, che mostra tutto quello che avete fatto. Cosa buona e giusta, perché oltre a sbloccare punti che possono essere spesi nel menù degli extra (con brani della colonna sonora, artwork e molto altro), le mappe vi possono dare un’indicazione delle innumerevoli possibilità offerte dal gioco, con addirittura interi capitoli che non prendono neppure il via se prima non sono state soddisfatte determinate condizioni. L’impulso di scoprire ogni piccolo aspetto è davvero grande, facendo raggiungere al gioco almeno 40 ore di esperienza ludica. Dal menù principale, poi, possiamo ripercorrere ogni diagramma e decidere di provare a far ripartire la nostra storia da un determinato checkpoint. Si ricomincia da capo, insomma, tutte le volte che vogliamo, e ogni volta l’esperienza è essere diversa dalla precedente, più difficile se vogliamo ad esempio esplorare il livello Esperto. A questa difficoltà, come abbiamo già accennato in precedenza, molti indicatori a schermo scompaiono, e il futuro del personaggio è lasciato molto più alla mercè del giocatore, che deve stare attento in ogni istante.
PUNTI DI FORZA
- Il miglior titolo di Quantic Dream
- Sceneggiatura e regia di incredibile livello
- Tecnicamente superbo
- Le musiche
PUNTI DEBOLI
- Alcune (poche, per fortuna) scelte e conseguenze non paiono molto logiche
- Il gameplay avrebbe potuto osare qualcosa in più in alcune sequenze
Lo abbiamo atteso per anni, bramato dopo quella parziale delusione che fu Beyond: Due Anime ma soprattutto dopo quel capolavoro che fu Heavy Rain. Detroit: Become Human è un titolo immenso, un gioco dal valore artistico e ludico impressionante, un’altra imperdibile esclusiva nella scuderia di casa Sony. Il lavoro svolto da Quantic Dream, durato più di 4 anni, è da lodare per la sempre crescente voglia di rimettersi in gioco dopo ogni successo e per la capacità di realizzare storie che sanno imprimersi nella mente di un giocatore. Troverete scene toccanti, drammatiche, ma anche sequenze adrenaliniche, ricche di tensione, interrogatori, momenti di riflessioni, altri quasi inspiegabili ma che trovano il loro posto in questa dimensione solamente una volta scoperto il bandolo della matassa. Al netto di un gameplay forse povero agli occhi dei più ma che è quello che cerca un amante delle avventure grafiche, il titolo rappresenta quanto di più elevato fatto da Quantic Dream in questi lunghi e onorati anni di carriera, capaci di dare vita ad un gioco dalle possibilità narrative innumerevoli e sempre fresche, ad ogni nuovo play-through. Siamo stati ben attenti dal non rivelarvi alcuni spoiler, perché il gioco merita di essere giocato dall’inizio alla fine, ma sappiate che per la sua natura è difficile riuscire anche a parlare di spoiler. Come secondo la teoria del caos il semplice battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo, anche in Detroit: Become Human avrete la sensazione che ogni piccola cosa può avere un peso importante sul futuro di Markus, Kara e Connor. La vita, in questo caso rappresentata dalla nascente specie degli androidi senzienti, troverà il modo o verrà respinta dall’uomo?
Un ringraziamento a Sony PlayStation Italia per la copia review di Detroit: Become Human.
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