Negli ultimi giorni si è tornato a parlare fortemente di Six Days in Fallujah, controverso sparatutto il cui sviluppo è iniziato più di dieci anni fa e che, sorpresa sorpresa, dopo anni di silenzio, sarà pubblicato entro la fine del 2021.
Six Days in Fallujah è ambientato nella Seconda Guerra del Golfo, conflitto che interessò anche la città iraqena rendendola teatro dello scontro tra gli eserciti angloamericani e le forze locali.
Il gioco, sparatutto tattico, è basato su storie vere e testimonianze di sopravvissuti agli eventi di Fallujah del 2004, e come abbiamo detto in apertura si è nuovamente fatto vedere dopo molti anni con un trailer a sorpresa e un coverage dedicato da IGN, che ha evidenziato i paragoni con Call of Duty ma che ha anche ricordato che il titolo intende rompere alcune delle barriere dei videogiochi.
Ecco il gameplay reveal trailer, ma la storia non finisce certo qui.
Già all’epoca dell’annuncio – inizialmente fu Konami a occuparsi del gioco, abbandonandolo nel lontano 2009 – Six Days in Fallujah generò numerose polemiche, e quest’oggi ci pensa Alanah Pearce a gettare ulteriore benzina sul fuoco.
Se già Daniel Ahamd, noto analista del settore, aveva dichiarato che il titolo serve al governo americano per giustificare i suoi crimini di guerra, la sviluppatrice di Sony Santa Monica afferma di essere stata addirittura minacciata.
Pearce ha infatti dichiarato in un tweet odierno di essere stata messa in guardia a proposito di Six Days in Fallujah. Se la content creator, oggi alle dipendenze della software house di God of War, avesse parlato del gioco, avrebbe seriamente rischiato di perdere il visto per restare a vivere negli Stati Uniti – Alanah Pearce è infatti australiana.
Mi è stato consigliato di non parlare dei problemi di questo gioco perché potrebbe ritirare il mio visto.
https://twitter.com/Charalanahzard/status/1374534898954821634
Insomma, a più di un decennio dall’annuncio, Six Days in Fallujah è ancora un caso politico molto scottante.
Cosa ne pensate?
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