Sony, Microsoft, Activision, Supermassive Games, Embracer, Riot e chi più ne ha più ne metta. Ormai non passa giorno senza che le pagine del nostro sito, e di quelle di tutti gli altri portali di settore, non vengano riempite da una parola. Una forte parola, che ha un significato ben profondo: licenziamenti. Perché con licenziamenti nel mondo dei videogiochi di oggi, ed è bene ricordarlo, non si parla solo di problemi associati ai fallimenti. Paradossalmente, persino chi domina il mercato non è più in una botte di ferro.
Il quadro che emerge da questi ormai più di 12 mesi, nei quali il settore si è fortemente ridimensionato in fatto di numero di dipendenti coinvolti, è molto preoccupante. Non desolante, questo no, ma l’impressione è che l’industria si trovi davanti a una crisi che non sembra conoscere fine. E dirigenti come Hiroki Totoki e Phil Spencer, rispettivamente boss di Sony e Xbox, lo hanno fatto intendere nelle scorse settimane: questo mercato non è più sostenibile. Non basta più.
Quali sono le possibili soluzioni? E chi lo sa. Tutto cambia così in fretta, e non sempre per il meglio. Dove sarà questo settore videoludico tra anche solo un paio d’anni?
Un anno da incubo
Guardando solo al 2024, iniziato da appena due mesi, Dopo che alla fine dello scorso anno Ubisoft è stata costretta a ridimensionare la sua divisione di Montreal (per non parlare di Amazon Games, che sembra passarsela non molto bene), il nuovo anno è iniziato con alcune botte non da poco per chi lavora in questo settore. Riot ha licenziato l’11% della sua forza lavoro, chiudendo uno studio, SEGA ha lasciato a casa 61 dipendenti, e naturalmente fanno ancora rumore i 1900 lavoratori licenziati da Microsoft (colpita duramente Activision Blizzard, con reparti dimezzati e giochi cancellati), oltre ai recentissimi 900 di Sony che hanno anche portato alla chiusura di London Studio. Stendiamo poi un velo pietoso su Embracer Group, azienda che ha cancellato la bellezza di 29 videogiochi in pochi mesi e chiuso vari studi, sottolineando quanto questo conglomerato non riesca proprio a raccapezzarsi della propria inesperienza.
Ma se il caso di Embracer è abbastanza comprensibile, frutto di una politica fagocitante che ha puntato sulla quantità (degli studi) più che sulla qualità (dei giochi, vedasi il pessimo Saints Row), molti altri nomi sono difficili da inquadrare in queste ondate di licenziamenti derivanti dalla crisi.
Prendiamo Sony, un’azienda che riesce a piazzare 55 milioni di PlayStation 5 sul mercato nonostante due anni interi di moria generale nei negozi a causa della scarsità dei componenti, e che oggi, per voce dei suoi stessi dirigenti, ha capito che neppure in questo modo riesce ad andare avanti. I ricavi netti diminuiscono, le previsioni si rimodellano, e i già esorbitanti costi di produzione aumentano di giorno in giorno. Certo, l’aver messo in sviluppo una dozzina di titoli live service, dei quali forse solo la metà vedrà la luce, non è stato un grande investimento a posteriori, ma non può essere tutto qui il motivo della crisi. Anche perché i licenziamenti colpiranno persino Guerrilla e Insomniac Games, due studi che coi live service c’entrano come i cavoli a merenda.
Prendiamo Microsoft allora. Xbox non può vantare il seguito di PlayStation, eppure Xbox Game Pass è salito fino ad arrivare a 34 milioni di abbonati – numero gonfiato dagli utenti Core, ed è utile sottolinearlo in quanto testimonia che il servizio, sostanzialmente, è fermo come quantità di iscritti da un po’ troppo tempo. Sono sufficienti? No. I grandi progetti del gigante americano si stanno scontrando con la dura realtà, poiché anche un servizio come Game Pass non riesce a garantire la stabilità che si sperava. Inutile girarci intorno, lo hanno detto anche Phil Spencer, Sarah Bond e Matt Booty nel meeting di Xbox di qualche giorno fa: le previsioni erano differenti, e portare alcuni giochi su altre piattaforme è un modo (disperato?) per cercare nuove vie di monetizzazione e sostentamento. Perché è vero che Microsoft ha tutti i soldi del mondo, ma non è una onlus.
Ciò che colpisce di questa profonda crisi è che sembra non conoscere limiti. In casa Activision ne sono successe di tutti i colori. Toys for Bob è stata praticamente dimezzata, e ora noi, aficionados di Crash Bandicoot e Spyro, iniziamo davvero a temere (di nuovo) per il futuro di questi brand dopo scelte molto poco intelligenti degli ultimi anni. Ma c’è anche altro, c’è di più: studi come Treyarch, Raven e Sledgehammer Games sono stati colpiti dai licenziamenti, anche se non è chiara l’entità. E parliamo dei team che lavorano a quello che forse oggi è il più grande franchise d’intrattenimento ludico, Call of Duty. Call of Duty, un nome che ogni anno, a prescindere dalla qualità dei suoi prodotti, vende milioni e milioni di copie, piazzandosi stabilmente nei primi posti delle classifiche.
Ma se neppure Call of Duty riesce a giustificare nuovi investimenti e assunzioni, dove andrà a finire questo settore?
1983, parte 2
Va detto che i problemi di oggi dell’industria sono tantissimi, a partire dai servizi in abbonamento (hanno sì i loro pregi, ma non sono pochi gli studi indipentendi che stanno lamentando forti cambiamenti nelle condizioni economiche) che stanno sempre più convincendo il pubblico a non spendere denaro sonante al day one per assicurarsi un nuovo prodotto. Una mentalità che alla lunga potrebbe rappresentare un disastro economico, e a un ridimensionamento totale della gestione degli studi e dei team: se sempre meno persone acquisteranno giochi a 70, 80 o perché no 90 euro, come sarà possibile restare a galla?
Certo è che le aziende si stanno impegnando non poco per acuire questa situazione. Non serve neppure andare troppo indietro nel tempo: Ubisoft e Warner Bros. hanno tra le mani i flop commerciali di rispettivamente Skull and Bones e Suicide Squad: Kill the Justice League, due produzioni live service incapaci di attirare il pubblico di massa seppur a fronte di uno sviluppo quasi decennale e chissà quanti milioni di dollari di budget. Troppi videogiochi simili tra loro, sia nelle intenzioni che nei risultati, che fanno tanto tornare alla mente il crac del settore dei videogiochi del 1983 quando il mercato del Nord America crollò di colpo mandando in bancarotta decine di aziende.
Naturalmente ci auguriamo che tutto questo non accada, ma i segnali di qualcosa che non sta andando per il verso giusto ci sono. Anzi, iniziano a essere anche troppi. Un’industria che, evidentemente, nonostante nuove tecnologie e franchise che continuano a macinare miliardi, non riesce più a stare dietro a se stessa. A parte Nintendo, ovviamente, che continua a fare un campionato a parte. Non fate la guerra. Fate come Nintendo. Perché non vorremmo ritrovarci qui, tra 40 anni, a commentare il ritrovamento delle copie invendute dell’ennesimo live service sotterrate da un’azienda nel deserto.
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