Benvenuti su Wasabi, una nuova rubrica che vuole essere una sorta di valvola di sfogo (magari collettiva) nei confronti di alcuni temi del settore videoludico. Gli articoli che faranno parte di questa “collana” saranno scritti in prima persona, così da abbattere ogni sorta di muro virtuale e stimolare la discussione tra chi scrive e coloro che leggono.
Iniziamo quindi il primo capitolo di Wasabi con un argomento ormai sempre più attuale, ossia:
Lo stress da open world
Il mondo del gaming conobbe verso la metà degli anni ’90 una vera e propria evoluzione. Le console ed i PC iniziarono infatti ad accrescere la potenza di elaborazione, consentendo agli sviluppatori di creare alcuni titoli che, per la prima volta, ruppero completamente gli schemi della tradizionale interazione con un videogioco.
Il sistema basato sulla linearità e la successione dei livelli, iniziò piano piano a cedere il passo ad un nuovo metodo di fruizione, incentrato unicamente sulla libertà di esplorazione. Titoli ad esempio come Driver, Grand Theft Auto e Super Mario 64 hanno infatti messo nelle mani del fruitore un mondo più ampio ed aperto, in grado entrare nel cuore di critica e pubblico. Questo passaggio ha quindi sancito un nuovo standard dell’intrattenimento digitale, che ha contraddistinto il settore per molti, molti, molti anni.
L’open world ormai è uno standard, diciamoci la verità. Non corrisponde più ad un’audacia da parte di un team di sviluppatori che vuole mostrare appieno il proprio potenziale, ma quasi ad una sorta di alibi per poter poi commettere leggerezze su altri comparti produttivi. In molti casi ci si trova davanti a prodotti con mappe immense, ma con una struttura narrativa profonda come una pozzanghera. La trama viene talvolta confinata alle missioni primarie (quando va bene) oppure a log testuali ed audio (quando va meno bene). A rifinire il quadro vi sono poi quest secondarie che, per un amante del completismo come il sottoscritto, che cerca quindi di terminarle appena disponibili, molto spesso fanno completamente dimenticare alcuni passaggi della storia (ma forse questo può essere causato dalla senilità che avanza, non lo escludo). A seguito di questo mi ritrovo in una prigione aperta, dove la troppa libertà concessa muta molto rapidamente in smarrimento e successivo calo di mordente nei miei confronti dell’opera.
Il famoso detto che il troppo stroppia ha iniziato prepotentemente a colpire il settore, generando talvolta titoli open world insipidi e controproducenti: non c’è infatti nulla di peggio che creare un mondo aperto che si rivela poi povero (lo abbiamo visto di recente con Redfall). Questo fenomeno ha instillato nel giocatore che è in me una forte sensazione di stress: ogniqualvolta un titolo interessante viene poi associato alla formula del mondo aperto, provo una sensazione di avvilimento, che tento di scacciare con tutte le mie forze ripetendomi: “Dai, il concept è buono, magari sarà divertente lo stesso”.
Ovviamente nel corso degli anni è entrata in scena un’altra importante causa che ha sicuramente contribuito a generare in me questa valutazione: la mancanza di tempo. I titoli open world richiedono molte ore per essere portati a termine in ogni loro parte e, guardando la carta di identità e le priorità che ne conseguono, devo raffrontarmi con la realtà, ossia che le ore da dedicare ai videogiochi sono sempre meno (so che in molti potranno capirmi…Giusto? Vero? Vi prego ditemi di sì).
Naturalmente con questo scritto non voglio fare di tutta l’erba un fascio, sono moltissimi gli esempi di produzioni che hanno saputo confezionare un’esperienza eccellente in salsa open world (uno di questi ha anche vinto un premietto da niente), ma un tasso di presenza così elevato di mondi aperti potrebbe, in alcune situazioni, svilire la qualità di un videogioco realmente valido, a causa dell’assuefazione della caratteristica. Un esempio recente di titolo che ha visto modificare completamente la propria struttura “globalmente libera” rispetto al predecessore è Dead Island 2. Dambuster Studio ha infatti ritenuto doveroso eliminare la macroarea di gioco del primo capitolo per confezionare aree esplorabili più contenute e con ambienti curati maggiormente.
A mio avviso servirebbe una sorta di reboot del genere. L’open world va contemplato unicamente dove il concept lo consente. Questo traguardo è raggiungibile in primis con una profonda lavorazione della parte narrativa, ma anche con una corretta caratterizzazione dei personaggi e del mondo di gioco. Non a caso le migliori esperienze sono quelle che rapiscono il giocatore all’interno del proprio universo, quelle che non fanno mai venire voglia di abbandonare un luogo, sia per la bellezza estetica e sia per ciò che contiene. Secondo me dovremo tornare ad emozioni del genere, perché quei lavori certosini sono capaci di portare milioni di giocatori ad attendere con ansia The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, oppure a chiedere quotidianamente il ritorno di Days Gone.
Per fissare questa pietra miliare occorre però che la qualità del genere venga innalzata sensibilmente, limitandola, come scritto poc’anzi, unicamente a titoli ben studiati a monte, e non tanto per poter dire: “Se volete scoprire tutto occorreranno 81 ore”. Così facendo, l’open world risorgerebbe a vita nuova, stimolando un maggior interesse nel pubblico, che con molta probabilità meglio valuterebbe le produzioni associate al genere.
Come (spero) avrete intuito, questo articolo non vuole creare un contraddittorio in stile: “Eh ma Death Stranding è stupendo, come anche Spider-Man e The Witcher!” ma vuole cercare di focalizzare l’attenzione sul concetto che sta a monte, su ciò che un mondo aperto dovrebbe avere (per me) al fine di risultare interessante e non sfibrante.
Voi cosa ne pensate? Quale è il vostro pensiero sui titoli open world? Ne giocate parecchi? Chi è sopravvissuto dopo aver platinato Assassin’s Creed Valhalla?
Colgo anche l’occasione per chiedervi che argomenti vorreste vedere trattati in Wasabi, così da creare degli articoli più direzionati verso lo sfogo comune!
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